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Immigrazione, cala anche l’occupazione etnica e gli immigrati se ne vanno.

by Redazione

Di Giuseppe Casucci

Il tasso di disoccupazione per gli stranieri è arrivato nel 2012 al 14,1 %, mentre quello di occupazione scende di 6,5 punti. Il lavoro cresce solo nell’area dei servizi alla persona. Attualmente i disoccupati regolari ufficiali sono oltre quota 318 mila. Intanto l’Istat avverte: forse ottocentomila stranieri se ne sono già andati.

Roma, 24 maggio 2013 – In un film di appena due anni fa, diretto da Francesco Patierno ed interpretato da Diego Abatantuono e Valerio Mastrandrea (“Cose dell’altro mondo”) all’improvviso, nel giro di una notte, succede che tutti gli immigrati stranieri scompaiono e la popolazione di una città veneta si ritrova di colpo a dover fare i conti con se stessa e con le sue proprie contraddizioni di popolo in declino. Cosa fare se da un giorno all’altro, sparisce il fornaio, il cameriere, il macellaio, l’idraulico, l’infermiere, la colf e la badante lasciando vacanti lavori che noi italiani abbiamo da tempo dimenticato come svolgere?

Certo, non siamo nella fiction di “A day without a Mexican”, film a cui Patierno si è ispirato, ma possiamo certamente dire che, in materia di flussi migratori, sembra cambiata un’epoca e che probabilmente dovremo rivedere le stime demografiche nel prossimo futuro. Inoltre, senza l’apporto della popolazione straniera, l’età complessiva è destina a decrescere, accrescendo nel contempo il declino della nostra Nazione.

Qualche tempo fa l’Istat ha rilevato una discrasia tra i dati del censimento e quelli risultanti dagli stranieri residenti: una differenza di 800 mila persone che non è facilmente spiegabile con la supposta “timidezza” dei cittadini stranieri a rispondere ai dati o alla poca dimestichezza con l’uso dell’informatica.

Oggi è difficile dire quanti stranieri abbiano deciso di andarsene (a casa propria o in un altro Paese) e quanti tengono duro scommettendo su un’improbabile ripresa economica.

Non c’è dubbio, comunque, che l’impatto della crisi stia avendo forti ricadute anche sui lavoratori stranieri che vivono in Italia. Secondo dati del Ministero del Lavoro, tra il 2011 e il 2012 è aumentato in misura significativa il numero di disoccupati cittadini di Paesi terzi, passati da 264mila (terzo trimestre 2011) a 318mila (terzo trimestre 2012).

Va ricordato che per un immigrato perdere il lavoro ha una doppia negativa valenza: intanto viene meno una fonte certa d’ingresso (a meno che uno non possa godere di ammortizzatori sociali), ma soprattutto che perdere il lavoro (e non trovarne un altro entro un anno) può comportare – alla scadenza dello stesso – il mancato rinnovo del permesso di soggiorno, cosa che comporta lo scivolamento in una condizione di clandestinità (ed assenza virtuale di diritti) o il rischio di espulsione.

Ora è sempre l’Istat nel suo “Rapporto annuale 2013” sulla situazione del Paese, a darci un quadro più dettagliato del quadro occupazionale dei cittadini stranieri. Nel 2012 l’occupazione etnica (che conta di 2 milioni 334 mila lavoratori stranieri) è aumentata (+83 mila rispetto al 2011) ma, a differenza del recente passato, l’incremento è avvenuto a ritmi dimezzati ed è ascrivibile in oltre otto casi su dieci all’aumento registrato nei servizi alle famiglie (+73 mila unità, quasi esclusivamente donne). Secondo l’Istituto, le presenze più consistenti di stranieri si trovano nelle costruzioni (18,9%) e nei servizi domestici e di cura (76,8% nel 2012, era 67,3% nel 2008).

Tra le professioni non qualificate un occupato su tre è straniero. Il tasso di occupazione degli stranieri scende però dal 2008 di 6,5 punti percentuali contro 1,8 punti degli italiani (dal 67,1% al 60,6% e dal 58,1% al 56,4%, rispettivamente). In particolare, gli uomini stranieri perdono 10,3 punti percentuali contro i 3,5 punti degli italiani. Gli stranieri in cerca di occupazione sono aumentati del 23,4%. Tra il 2008 e il 2012 il tasso di disoccupazione degli immigrati è cresciuto di quasi 2 punti in più (dall’8,5% al 14,1%) rispetto a quello degli italiani (dal 6,6% al 10,3%).

In confronto agli autoctoni, nel 2012 le differenze più elevate sono presenti nel Nord (14,4% contro 6,4% degli italiani). Le diverse comunità sono state differentemente colpite dalla crisi: la perdita occupazionale risulta maggiore per marocchini e albanesi, più inseriti nel settore industriale, mentre risultano meno colpite le comunità (soprattutto la componente femminile) più impegnate nei lavori di servizi alle famiglie e di assistenza (filippina, romena, polacca).

Una prospettiva dunque a dir poco grigia anche per i nostri colleghi non autoctoni, in genere più adattabili ad offrirsi a condizioni difficili di lavoro, ad occupazioni poco allettanti ed a retribuzioni meno generose di quelle offerte agli italiani.

Un altro elemento allarmante ce lo fornisce l’ISMU secondo cui nel 2011 sono arrivati appena 27mila stranieri mentre hanno fatto le valigie per l’estero 50mila italiani. Uno scenario impensabile anche solo in tempi recentissimi: dal 2002 al 2009 ha varcato la frontiera italiana una quota oscillante tra i 350mila e i 500mila migranti l’anno.

Le prime avvisaglie di questo fenomeno erano palesi già nel 2010, quando il saldo tra stranieri che entravano e stranieri che uscivano dall’Italia era sceso bruscamente a 69mila unità. Ma è nel 2011 che si registra per la prima volta una crescita zero dell’immigrazione (+0,5%): al primo gennaio 2012 gli stranieri in Italia erano 5 milioni 430mila contro i 5 milioni e 403mila rispetto a un anno prima. Secondo l’ISMU questo non significa che poco a poco gli stranieri smetteranno di venire e abbandoneranno gradualmente il Belpaese, ma certo è finita l’era della crescita demografica tumultuosa nella sua componente etnica che ha portato la popolazione straniera a quintuplicare tra il 2000 ed il 2012.

Se all’azzeramento dei flussi in ingresso aggiungiamo la possibile diaspora della componente straniera che con tanta fatica si era integrata nel Belpaese, il quadro risultante dovrebbe suscitare più di un allarme al nostro Governo. Anche se le performance dei governi nel primo decennio del secolo si sono particolarmente distinte per incapacità di governance del fenomeno migratorio.

Non dobbiamo, infatti, dimenticare che la nostra popolazione di 60 milioni di persone, è in realtà composta di 55 milioni di italiani e 5 milioni di stranieri. Con un tasso di fertilità di soli 1,42 figli per donna (contro 2,07 figli delle donne straniere) siamo un popolo destinato al declino, perché la ricchezza di una nazione si basa soprattutto sulle risorse umane di cui può contare. Senza quei 400 mila stranieri entrati ogni anno, saremmo già scesi a 55 milioni e meno.

Il gap demografico, inoltre, produce buchi nel mercato del lavoro di alcune centinaia di migliaia di posti l’anno, senza contare il deficit di expertise che ci può causare la fuoriuscita di migliaia di persone che hanno lavorato e si sono formate accanto a noi e che ora andranno ad offrire altrove la propria professionalità (assieme, tra l’altro, a molti dei nostri figli).

Secondo molti indicatori, nonostante la crisi il gap demografico continuerà a produrre la necessità di nuovi ingressi dall’estero. Potremmo però trovarci di fronte ad un nuovo paradosso: per molti anni l’immigrazione è cresciuta nonostante la stagnazione e l’assenza di crescita economica. Un’immigrazione, che qualcuno ha chiamato “low cost” che è andata gradualmente a riempire quelle sacche occupazionali lasciate libere dagli italiani. Oggi, all’apice della crisi occupazionale, osserviamo un’inversione di rotta, con l’azzeramento degli ingressi etnici e la diaspora di stranieri residenti che abbandonano la nave. Una fuoriuscita che potrebbe continuare malgrado il costante gap demografico, e le cui conseguenze e danni sono per ora difficilmente quantificabili.

C’è n’è abbastanza, crediamo, per rilanciare una profonda riflessione su quanto stia accadendo nel mercato del lavoro e quanto accade in materia di immigrazione. Forse le risposte sono complessivamente da dare alla società e al mondo del lavoro italiano. Non dimentichiamo, però, che il segmento etnico è pari al 10,2% del mondo del lavoro e produce l’11% del PIL: possiamo veramente permetterci di farne a meno?


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