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Nel Cie di Milo, un mattino d’estate

by Redazione

Lo scorso 29 giugno una delegazione internazionale ha visitato il Cie di Milo: un gigantesco zoo per esseri umani, simbolo della risposta europea alle migrazioni dal Mediterraneo. E’ il mondo oscuro voluto dal pacchetto sicurezza e dal reato di clandestinità. E delle violazioni dei diritti alla persona in nome della “sicurezza”.

Giuseppe Casucci, Coord. Nazionale Dipartimento Politiche Migratorie UIL

Piero Soldini, Responsabile Nazionale Immigrazione CGIL

Angela Scalzo, Segretario Generale SOS Razzismo Italia

 

Milo – Trapani, sabato 29 giugno 2013 – A vederlo potrebbe sembrare uno zoo ad alta sicurezza, costruito per contenere bestie feroci e tenerle ben lontane dai pacifici visitatori.

Eppure, dentro le gabbie non vi sono fiere (e sarebbe comunque crudele tenerle lì), ma esseri umani la cui unica “colpa” è di essere entrati nel Belpaese senza autorizzazione.

Sono arrivati spesso attraversando il Mare Nostrum e rischiando di annegare: dal 1988 ad oggi, 19.000 dei loro compagni di sventura non ce l’hanno fatta: donne, bambini, vecchi e giovani. Hanno pagato migliaia di dollari agli scafisti, facendo debiti di cui la famiglia si è fatta garante. Il loro sogno: trovare una nuova vita, una nuova speranza di futuro in Europa. Ma in Italia il sogno si è infranto o trasformato in incubo: quello del centro di espulsione dove i diritti arrivano col contagocce.

La frazione di Milo, è una località nei pressi di Trapani, da cui dista 4 chilometri in direzione sud -est, alle falde del Monte Erice. Intorno c’è il nulla: quasi nessuna popolazione, scarsa vegetazione – specialmente attorno al metallico centro di contenimento degli immigrati, simbolo dell’Europa che sa mostrare i muscoli, anche se solo con i poveracci.

Il primo impatto, per chi viene da fuori, è freddo e brutale: la struttura è quasi completamente metallica e comunica a chi vi entra un gelido messaggio solo parzialmente mitigato dai colori variopinti delle inferriate (giallo e marrone e ocra in prevalenza): da qui dentro non si scappa!

A Milo vengono rinchiuse  le persone che sono arrivate irregolarmente sul territorio del nostro Paese, ma anche chi abbia vissuto in Italia, magari da anni, e venga trovato privo di permesso oppure con un documento  scaduto oltre i termini previsti dalla legge. In questo caso, un giudice (anche onorario) decreta l’espulsione del malcapitato e, a meno che qualcuno non lo consigli di fare una  richiesta di asilo (la domanda sospende il rimpatrio), egli rischia in molti casi di essere rinchiuso in uno dei 13 Centri di identificazione ed espulsione oggi operativi in Italia, dove inizia una procedura che in meno della metà dei casi si conclude con un’espulsione effettiva.

I costi (e gli sprechi) di questa procedura sono altissimi per lo Stato, dal punto di vista finanziario, ed incalcolabili dal punto di vista umano.

Eppure le norme internazionali impongono il rispetto dei diritti umani e della dignità della persona. Senza contare che le direttive Europee indicano l’uso dei Centri di trattenimento come ultima chance da usare, dopo che ogni altra forma di identificazione sia risultata impossibile e  solo dopo aver offerto all’immigrato irregolare l’alternativa del ritorno volontario assistito, anche per evitare l’espulsione. Ma dove sta scritto che basta una direttiva e che venga applicata nel modo indicato? A decine finiscono in questi centri, nessuno dice loro che possono optare per il ritorno volontario, nessuno gli indica il supporto legale e i passi giusti da fare per una minima tutela. Spesso chi si occupa di loro non parla la loro lingua e i mediatori culturali, quando ci sono, non vi sono fondi per pagarli. Parlando con alcuni dei reclusi abbiamo chiesto spesso: <ti hanno proposto, in alternativa al CIE, di tornare in patria volontariamente?>. La risposta era uno sguardo confuso: non sapevano nemmeno di cosa stessimo parlando.

In posti come questi ci capita di tutto: anche chi è già stato identificato e non c’è nessun motivo che faccia 18 mesi di vera galera senza aver commesso un vero reato. Anche chi vive in Italia da anni e non più alcun rapporto con la sua patria d’origine. Anche chi chiede asilo: perché se lo chiede dopo che la procedura di espulsione è avviata, non verrà mandato al CARA (dove è libero di entrare ed uscire), ma resterà in quella gabbia per gente considerata pericolosa.

Siamo arrivati a Milo con un autobus verso le 10.30 del mattino, provenienti da Palermo. La nostra delegazione è composta da esponenti di EGAM, una rete internazionale antirazzista, da diversi mediatori culturali, da alcuni sindacalisti e da due parlamentari ( PD e SEL). La burocrazia ci ha bloccato a lungo prima di poter entrare, malgrado una lista di persone fosse già stata autorizzata in anticipo dalla prefettura. La cosa si è complicata anche per il fatto che alcuni dei passeggeri dell’autobus non facevano parte della lista e questo, ovviamente, ha prodotto un intoppo all’ingresso. Dopo lunghe trattative, la direzione accetta che una decina di persone non autorizzate possano essere aggiunte al seguito dei due parlamentari: un’altra decina rimane fuori.

Inizia un tira e molla tra i funzionari: quanta libertà di movimento ci può essere concessa? Chi controlla i visitatori che parlano altre lingue? Quanto ci si può avvicinare? La presenza dei parlamentari, comunque, fa gioco e dopo un po’ ci lasciano entrare.

All’interno della struttura, sorgono altre quattro aree abitate dai reclusi e pesantemente recintate e guardate a vista notte e giorno. Aree tra di loro separate,  isolate dietro cancelli in acciaio alti almeno quattro metri e divise da larghe vie incessantemente pattugliate da militari.

Al di fuori, oltre ai sistemi di vigilanza elettronica,  militari bardati in equipaggiamento antisommossa, ci guardano circospetti mentre mostriamo il desiderio di avvicinarci alle cancellate per parlare con chi sta dietro le sbarre.

Sono sempre pronti alla bisogna, anche perché i 102 stranieri ivi reclusi sono davvero disperati e non sognano altro che di scappare da quella che – senza dubbio – è solo una prigione. Loro si sentono reclusi, anche se i funzionari – con un eufemismo davvero fuori luogo – li definiscono “ospiti”.

La nostra delegazione è stata divisa in due tronconi separati e avviata lungo i percorsi interni alle aree recintate.  Ogni tentativo di avvicinarsi alle cancellate, dove è già presente l’altro troncone della nostra delegazione, viene negato e veniamo invitati un po’ sbrigativamente a spostarci per “ragioni di sicurezza”. E’ questo un leit motiv, che verrà utilizzato da guardie, militari e funzionari per tutta la durata della visita.

Mentre il nostro gruppo sfila tra gli spazi che separano le quattro enormi gabbie, da dietro le inferriate volti in prevalenza scuri si affacciano a guardarci, le braccia e le mani protese verso di noi, mentre ci gridano e tentano di raccontare la loro sfortunata traversia individuale. Hanno solo quelle occasioni (la visita di delegazioni ufficiali) per tentare di far filtrare la propria storia. Vogliono poter parlare con noi: raccontare il proprio individuale percorso di migrazione, comunicare nomi e numeri di cellulare propri, di parenti, della famiglia in patria; vogliono denunciare le dure condizioni di detenzione, chiedere aiuto. Ma non è così facile: i funzionari che ci accompagnano sono restii a farci avvicinare: l’imperativo naturalmente, la loro parola magica rimane la nostra “incolumità personale” da garantire. Ma da dietro quelle gabbie non vediamo volti ostili, ma solo esseri umani che lanciano una disperata richiesta di aiuto.

Tra i funzionari e vigilanti, alcuni appaiono nervosi e si mostrano poco propensi al dialogo. Altri, invece, mostrano gentilezza e un po’ di compassione per le persone recluse. In particolare, ci è sembrata apprezzabile la disponibilità delle assistenti sociali, pronte a mostrarci le schede di alcuni reclusi, correggendo il loro racconto, ma anche raccontando la loro storia e indicando per alcuni la possibilità di soluzioni positive.

Superati alcuni sbarramenti, entriamo nell’area più interna al centro. Al di là delle cancellate, si intravvedono grandi strutture metalliche – dall’apparenza magazzini – che presumibilmente contengono gli alloggi dove i reclusi vivono confinati.

Non ci è permesso di entrare all’interno ed anche la richiesta che una piccola delegazione degli “ospiti” possa uscire a parlare, viene sbrigativamente rifiutata. Alle nostre rimostranze, la risposta è sempre la stessa: “sappiamo noi come gestire la sicurezza delle persone in questo luogo”. Il  funzionario che accompagna la delegazione su questo è categorico.

Non siamo dunque in grado di testimoniare sulla  qualità degli ambienti dove gli immigrati vivono e ci dobbiamo basare solo su quanto raccontato da alcuni di loro. Molte di quelle persone sono condannate a rimanere lì confinate, anche fino a 18 mesi (limite massimo previsto dalla direttiva europea sui rimpatri)  ed a restare nella prigione di Milo – o in altri simili centri – come detenuti, senza aver commesso alcun reato tranne quello di immigrazione irregolare, abominio giuridico inventato nel 2009 dal Governo di centro destra.

Pochi escono liberi, almeno la metà di loro vengono espulsi. Altri iniziano un percorso che in molti casi si perde nell’incertezza del futuro. Il motivo dipende anche dai Paesi di provenienza. Spesso, per difendersi, questi stranieri rifiutano di farsi identificare e non è sempre possibile avere la certezza del paese d’origine, A volte vengono chiamati funzionari delle ambasciate africane a tentare di identificare almeno la provenienza. Molto spesso, poi, i paesi nostri dirimpettai nel Mediterraneo, rifiutano di accettare gli stranieri espulsi, adducendo che non è certo siano loro connazionali. Ed infatti molti provengono dall’Africa centrale e il Nord Africa è stato solo un’area di transito. Il risultato è un palleggiamento di responsabilità e l’allungamento dei tempi di detenzione nei CIE. I costi per lo Stato italiano, naturalmente, sono esorbitanti ma vengono pagati all’altare della sicurezza, o agli interessi delle molte parti interessate all’affare.

Mentre ci avviciniamo, alcuni migranti ci gridano da dietro ai cancelli: <niente aria condizionata, qui dentro si soffoca>; <niente televisione: qui ci tengono isolati>; <niente lavoro e la mia famiglia muore di fame>; <il cibo è immangiabile e non rispetta le nostre tradizioni>; <gli avvocati  che vengono qui non servono a niente>. Debbono averlo detto a tutti, ma senza grandi risultati. Eppure continuano a gridarlo: non hanno altre chance.

Dopo aver girato intorno ad una delle strutture, ci viene finalmente permesso di avvicinarci ad una cancellata. Subito, decine di reclusi si avvicinano per parlarci. Si tratta, in maggioranza, di immigrati africani (alcuni tunisini e marocchini, anche se non mancano quelli di provenienza sub – sahariana). Ci sono anche altre minori provenienze.

Samir (lo chiameremo così per tutelarne l’identità) ha 21 anni ed è serbo di origine. Dietro le sbarre appare un ragazzo magro e slanciato dai capelli castano scuri ed un volto curato. E’ arrivato in Italia con i genitori nel 1992, quando aveva sei mesi e la famiglia era dovuta scappare dalla guerra. Non si sa se per ignoranza o trascuratezza, i genitori non lo hanno mai regolarizzato in Italia e lui è vissuto privo di permesso di soggiorno per oltre un ventennio. Ha frequentato le scuole da migrante irregolare e allo stesso modo ha accudito a cure mediche. Quando è stato fermato dalla polizia, non ha saputo spiegare la completa assenza di documenti ed è stato rinchiuso nel CIE in attesa di accertamenti, o di possibile espulsione.

<Ma espulsione verso dove?> ci chiede sconsolato: <in Serbia io non conosco nessuno, e parlo a mala pena un po’ di serbo imparato da mia madre>.

Ci racconta che ha altri fratelli, loro sì sistemati: anzi con la cittadinanza italiana. Alla nostra domanda sul perché loro sì e lui no, ci da’ una versione confusa di litigi tra i genitori e di assenza di dialogo con il padre.

La storia sembra inverosimile o quanto meno illogica. Più tardi, però, l’assistente ci conferma il succo del racconto. E’ una giovane di circa 30 anni, che lavora tutti i giorni presso il CIE per dare assistenza e consigli alle persone lì trattenute. Precisa, incidentalmente, di non ricevere lo stipendio da almeno  3 mesi ma di non poter abbandonare persone tanto sfortunate. “il racconto, per quanto inverosimile – precisa – risulta vero. Quest’uomo sta da vent’anni in Italia senza  permesso”. Aggiunge che Samir non risulta aver mai commesso reati e che per questo motivo, gli è stato consigliato di fare domanda di protezione umanitaria. L’assistente è molto ottimista e crede che la Commissione gli darà presto un permesso, in modo che il giovane possa uscire: poi avrà un anno di tempo per cercarsi un lavoro.

Più complicata la storia di Kamal. Lui è un uomo sulla quarantina, marocchino. Ha folti capelli ricci  e neri come i due baffoni color ebano. Stava per sposarsi con una italiana, ci racconta ed avevano già fissato l’appuntamento al Comune. Ma non ci è mai arrivato in quanto la polizia l’ha arrestato per immigrazione irregolare. Lui infatti era arrivato, via mare, su uno dei viaggi della fortuna. Per imbarcarsi ha fatto un debito con gli scafisti ed è  la sua famiglia a dover rispondere, se lui non paga. Ha lavorato in nero nelle campagne, spesso 12 ore di fatica per 20 o 25  euro. Poi ha conosciuto una donna siciliana ed ha convissuto per anni con lei. Dice di aver avuto un primo permesso di soggiorno e che le cose stavano per sistemarsi. Ma il permesso era scaduto e lui è andato in questura per rinnovarlo e presentarsi al matrimonio con i documenti in regola. <Ho fatto male ad andare alla polizia per chiedere>, ci racconta ancora stupito. Perché arrestarmi se stavo per sposarmi?>.

Secondo le informazioni delle assistenti sociali, comunque, l’accusa è che il matrimonio fosse solo un falso espediente per procurarsi un permesso.

Poi è il turno di Ahmed (anche questo nome di fantasia). Si fa largo tra gli altri cercando di raggiungerci. E’ tunisino e non è tra quelli che ha attraversato il Mediterraneo ai tempi della primavera araba. Lui è arrivato via mare cinque anni fa. In Sicilia convive con un’italiana da alcuni anni. Ha 29 anni, pelle abbronzata e cappelli nero ebano. Era riuscito a regolarizzarsi e viveva di lavori saltuari: un po’ facendo il manovale in edilizia, un po’ in agricoltura nella raccolta delle arance. Un anno fa gli scade il permesso: presenta domanda di rinnovo, ma dopo alcuni mesi arriva un rifiuto. Non è chiara la motivazione e lui si rivolge ad un avvocato per fare ricorso. Un giorno però, la poca fortuna rimastagli lo abbandona: viene fermato da una pattuglia della polizia. In tasca ha solo la ricevuta del permesso rifiutato. Ce n’è abbastanza per farlo rinchiudere a  Milo. <Ma, il ricorso?>, gli chiediamo perplessi. E lui: “l’avvocato mi ha detto che il ricorso non blocca la procedura di espulsione”. “E poi, aggiunge quasi rassegnato, la convivenza con un’italiana non conta nulla ai fini della legge”.

Drammatica anche la testimonianza di Laachir. Lui è nato in Marocco, è mussulmano e appare molto scoraggiato: ha scontato dieci anni di carcere per aver ucciso un connazionale durante una lite. Appena terminata la pena, è stato prelevato e portato al CIE di Milo: obiettivo dell’Italia è di liberarsi di lui. “Non è giusto, si lamenta: io ho pagato il mio debito con lo Stato italiano. Perché non darmi un’altra possibilità?”. Cosa ti succederà in patria, gli chiediamo. “La famiglia dell’uomo che ho ucciso, aspetta solo il mio ritorno per farmela pagare”. “Lì il sangue si paga con il sangue”, aggiunge. Lo ha detto alle autorità, ma questo non è servito a fermare la procedura di espulsione.

L’ultima persona con cui siamo riusciti a parlare è Hamdilash. Dice di essere sposato con una donna italiana ma di essere poi stato arrestato ed aver scontato due anni di carcere a Castelvetrana. Finita la pena è stato portato a Milo, in attesa di espulsione. La cosa ci appare inverosimile e cerchiamo di approfondire, ma proprio in quel momento tre reclusi nell’area dirimpetto al cancello in cui stiamo, decidono di dare avvio ad una protesta. Si arrampicano con agilità è scavalcano l’inferriata alta quasi quattro metri. Vendono subito isolati da un gruppo di militari in tenuta anti sommossa. Noi veniamo allontanati sbrigativamente, ma gridiamo ai funzionari di non fare del male a quelle persone. Mentre veniamo spintonati verso l’uscita, ripetiamo ai responsabili che avremmo denunciato ogni forma di violenza ai reclusi.

Più tardi a due di loro viene permesso di raggiungerci nell’androne vicino all’uscita. Non hanno subito violenza, per fortuna. Chiedono di avere il supporto di avvocati delle associazioni, non quelli forniti dal CIE. Il funzionario lo rassicura che potranno avere il supporto legale che desiderano, ma che non dipende da lui se sono rinchiusi in quel posto, senza aver commesso reati. “Dipende dal giudice – ripete suadente al detenuto – davanti ai molti testimoni: “se lui me lo ordina, io ti faccio uscire anche subito”. “Non è colpa nostra se sono trattati come carcerati – dice poi rivolgendoci a noi”. Ma allora di chi è la colpa per tante violazioni dei diritti della persona?

Uno di loro si avvicina e chiede sorridendo: <ma perché siete venuti? A fare cosa?>. Cerchiamo di spiegare che ci preme sapere come vengono trattati. Lui sorride ancora e risponde: <potete pure dire la verità. E’ come una gita no?>. Alle nostre proteste si gira per andarsene, ma ha un ultimo commento: <non dovete prendervela: non siete i primi che vengono qui, e non sarete gli ultimi. Ma per noi cambia qualcosa?>. E’ una domanda a cui nessuno di noi aveva risposta.


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