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by Redazione

Continuiamo la Pubblicazione a puntate del libro sui 20 di Nessun Luogo è lontanto con l’intervista con Silvia Iorio: “A BASTOGI NON SI FANNO MIRACOLI, MA RISULTATI SÌ”

 

Nel 2003 Nessun Luogo È Lontano ha aperto uno dei suoi Centri, in uno dei quartieri più complessi di Roma, il residence ex Bastogi, nella zona nord ovest della metropoli romana. Silvia Iorio ci lavora dal 2012 circa e sta anche portando avanti un progetto di ricerca di diversi dipartimenti della Sapienza Università di Roma, «sulla promozione del benessere bio-psico-sociale ed ambientale della comunità di Bastogi in una prospettiva di contrasto delle disuguaglianze, in attuazione del concetto di equità in salute e di giustizia, uno dei principi fondamentali della bioetica», spiega.

Quindi a Bastogi c’è un problema, parlando di equità e salute. Qual è la situazione?

«Bastogi è stata creata circa trent’anni fa, in un momento di crisi fortissima, riguardante l’assistenza alloggiativa. Era un residence, costruito dalla omonima ditta edile, probabilmente destinato ai piloti Alitalia. Dovevano essere abitazioni pregiate: pareti in sughero, piscina, eccetera… Ma proprio per questo erano e sono inadeguate per la vita delle famiglie. Alcune abitazioni furono occupate e oggi ci vivono circa duemila persone tra assegnatari e occupanti, in condizioni precarie, per esempio con bombole a gas e impianti non a norma. Questo è uno dei motivi per cui il suo status giuridico rimane tutt’ora indefinito: non è ERP, ma non è neanche assistenza alloggiativa temporanea. È il non-luogo per eccellenza, ma non in senso simbolico, quanto in senso letterale. È un luogo che è stato significato soltanto da chi ci vive da trent’anni.»

Chi ci vive?

«Persone caratterizzate da vulnerabilità socioeconomica. Quando queste case furono occupate, le situazioni di disagio socioeconomico erano ancora più gravi. Le persone venivano da emergenze abitative: o vivevano per strada, o venivano da altre occupazioni, o da comunità terapeutiche, comunque da contesti di sofferenza sociale. Con il tempo c’è stata una sorta di mescolanza – così viene definita anche dalla popolazione. Il panorama dal punto di vista della salute è caratterizzato da diversi fattori di vulnerabilità, alcune persone sono soggette a gravi problematiche psichiche e di dipendenza, elevata è la diffusione di patologie infettive e malattie cronico-degenerative trascurate e lasciate arrivare all’acuzia.

I dati del censimento ci parlano inoltre di condizioni degli edifici pessime al 100 per 100, di una scarsa diffusione dell’istruzione, di condizioni di lavoro quasi assenti rispetto alle aree limitrofe, di popolazione migrante molto numerosa (qui raggiunge il 18%, nei quartieri vicini non supera il 12).»

Alcuni abitanti, particolarmente molesti, sono stati cacciati via. Da chi?

«Prima c’era una maggiore coesione e si vedeva anche dal fatto che ogni palazzina aveva dei Comitati. Questi comitati, se c’era un elemento disturbante, provvedevano – con il linguaggio diffuso a Bastogi, che spesso si radica nel modello cognitivo-valoriale dell’aggressività – a cacciarli.»

Il Centro Peace è nato per i minori. Con che fasce d’età si lavora?

«I ragazzi di Bastogi sono tanti e come tutti molto diversi l’uno dall’altro. Negli anni, Nessun Luogo È Lontano ha lavorato sia con i minori dai 6 ai 10 anni, sia con quelli dai 10 ai 13, sia con gli adolescenti. Purtroppo non in contemporanea: lavorare con gli adolescenti, infatti, precludeva la possibilità di lavorare con i più piccoli: i bambini soccombevano, venivano sottomessi, se c’erano i più grandi. Abbiamo dovuto scegliere degli anni in cui concentrarci sugli uni o su gli altri.»

Come sono i bambini di Bastogi?

«Come tutti i bambini. Quando sono piccoli sono esattamente integrati con il resto della cittadinanza. Dimostrano da subito una forte indipendenza: per esempio, arrivano nella nostra sede da soli, per cui molto molto difficilmente abbiamo avuto modo di conoscere i genitori, se non andando noi per le case. I bambini sono autonomi, pieni di stimoli e spesso con un eccesso di energia, di agitazione. Vivono a casa situazioni difficili, a volte di violenza o di disagio provocato dall’uso di droghe o da rapporti conflittuali. Sono educati con modelli educativi punitivi. Quindi sono abituati ad una comunicazione di questo tipo. Allo stesso tempo cercano punti fermi e hanno voglia di conoscere modelli educativi diversi. Quando iniziano ad entrare nella preadolescenza, si rende più evidente la difficoltà ad amalgamarsi con il gruppo e difficilmente si riesce a fare attività gruppale. Per noi, in questi anni, è stata una sfida riuscire a non escludere, chi aveva questi atteggiamenti esuberanti fino all’aggressività, senza penalizzare gli altri.»

Perché vengono al centro Peace?

«Hanno bisogno di trovare un punto di riferimento, e l’hanno sempre trovato negli operatori dell’associazione. Nessun Luogo È Lontano in questo c’è sempre stata. In alcuni casi, si verifica una infantilizzazione dell’adulto, a cui consegue un’adultizzazione del minore, e questo comporta da parte dei giovani il mancato riconoscimento della persona adulta come figura idonea a sostenerlo e aiutarlo. Nella maggior parte delle interviste fatte ai minori, durante un approfondimento che abbiamo portato avanti con l’associazione diversi anni fa, quasi nessuno ha indicato la figura dell’adulto – sia nelle vesti del genitore sia nelle vesti dell’amico­ – come referente a cui rivolgersi in caso di difficoltà. Le figure di sostegno sono gli operatori del centro aggregativo dell’Associazione Nessun Luogo È Lontano, che nel corso degli anni, nonostante il turnover degli operatori, sono diventati il punto di riferimento nel percorso della crescita di molti minori. Hanno bisogno di un compagno adulto cui potersi affidare.»

Un ruolo delicato, per gli operatori.

«Per gli operatori è un contesto molto difficile, tanto che alcuni non sono riusciti ad affrontarlo e hanno rinunciato. A Bastogi, il linguaggio utilizzato nelle relazioni può essere quello dell’aggressività, anche da parte delle mamme – ma è come se si trattasse di un’altra lingua, una lingua straniera che al professionista non è comprensibile. È un po’ come dire: «ci rimango male perché sento parlare in inglese». Come professionista, dovrei leggere ciò come una specificità, che sicuramente può non rientrare nel mio modello comportamentale, e che richiede per accettarlo uno sforzo di adattamento. Più che dalla mia esperienza, ho visto da quella degli operatori che negli anni hanno lavorato a Bastogi, che il contesto è fortemente difficile, penetrante per chi ci si avvicina.»

Anche tu sei stata aggredita?

«Ci sono stati episodi come sassi in testa, pallonate forti in faccia, minacce… ma non sono state fatte per essere intese come aggressioni. Se lavori a Bastogi hai emozioni forti, ma se capisci dove stai lavorando capisci anche che i gesti che hanno procurato disagio a volte possono rappresentare un modo per instaurare una relazione. Una volta capito questo, perché avrei dovuto soffrire di questi gesti?».

Riuscite a stabilire un dialogo con i ragazzi?

«Il loro dialogo è appunto impostato su un altro tipo di linguaggio. Quindi ci si riesce solo se l’operatore è disposto ad abbandonare il proprio ed ad acquisirne uno, che può essere efficace anche in un contesto di aggressività e violenza verbale. Però assolutamente sì, si entra in dialogo e con i minori ci sono moltissimi scambi di problematiche emotive che portano con sé. Il professionista, se viene riconosciuto e riesce a creare collegamento con la parte emozionale del minore, vedrà sgorgare fiumi di ragionamenti, confronti, richieste di spiegazione su quello che si vive, agisce, sente e via dicendo. Con gli adolescenti abbiamo fatto lavori formidabili. »

Hai dei ricordi particolarmente forti?

«Per esempio quando si sono ostinati a voler distruggere il centro con atti vandalici, anche mentre eravamo presenti. I minori, gli stessi che amavano il centro e che lo volevano distruggere, davanti ai nostri occhi. È stato terribile: vedi la violenza, aspetti che finisca, perché se intervieni la alimenti, ti senti impotente e oggetto di violenza fisica, verbale e psicologica. Per di più dai tuoi ragazzi, che una settimana prima ti venivano ad abbracciare.

Ho anche ricordi bellissimi, quando i ragionamenti, che si facevano per analizzare le loro situazioni problematiche, i ragazzi li interiorizzavano, fino a che diventavano autonomi nell’analizzare i propri livelli emotivi. Quando venivano a chiedere di essere aiutati a superare il desiderio di essere onnipotenti, violenti, forti e virili, come il modello della cultura di strada prevede, e tu li aiutavi invece a capire che si può essere deboli e loro riuscivano ad esserlo.»

Quindi ci sono dei risultati.

«Piccoli, ma ci sono. Noi offriamo loro l’unico modello non respingente con cui possono confrontarsi. La scuola offre un modello equivalente a quello della cittadinanza complessiva, solo che a scuola purtroppo la maestra, se il bambino si agita e disturba, è costretta a respingere quel comportamento. Stando a Bastogi, noi non l’avremmo mai potuto respingere, perché siamo noi che siamo in qualche modo ospiti. In questo modo siamo stati spesso l’unica figura adulta positiva, diversa da quella familiare e diversa anche dalla maestra di scuola che, per quanto brava, non fa scattare il desiderio di assomigliarle. La nostra presenza è stata quindi importantissima, anche perché, a oltre alle suore della Comunità religiosa dell’Incarnazione, a Bastogi non c’è nessun altro.»

Siete riusciti a stabilire rapporti con le famiglie?

«Li abbiamo avuti andando nelle case. A Bastogi facciamo, oltre che un’educativa normale, un’educativa di strada. Abbiamo capito che è inutile aspettare che le famiglie arrivino al Centro. Al Centro arrivano i ragazzi, che hanno barriere culturali molto meno rigide dei loro genitori. Quindi, se si vogliono costruire relazioni, dobbiamo essere noi a distruggere le barriere, entrando dentro casa e stabilendo rapporti di stima, amicizia, mutuo aiuto. Succede che le mamme chiedano a me come sto, che si preoccupino per la mia posizione lavorativa – quando a Bastogi non c’è quasi nessuno che non lavori in nero e il reddito medio è più basso di quello delle aree limitrofe, per quanto disagiate.»

Riescono a tirarsi fuori?

«Alcuni sì. Altri, anche tra quelli che ci aiutavano attivamente, sono ricaduti nel circuito dell’illegalità e purtroppo vivono orgogliosamente la cultura di strada. Razionalmente è comprensibile: siamo un goccia nel mare, come possiamo cambiare l’ambiente familiare e sociale, con il vicino che spaccia, va a rubare ed è un fico..?. Questi minori però hanno anche famiglie che, per quanto economicamente vulnerabili, ci sono e costituiscono una base solida per il sviluppo. È in questi casi che il nostro lavoro raggiunge più obiettivi. A Bastogi i miracoli non si fanno. Se non c’è il supporto della famiglia e della rete sociale si rimane fermi.»

Vi capita di sentirvi inadeguati?

«C’è una signora – che è sempre stata molto presente e ci ha aiutato molto – che ci ha sempre detto: “non abbiamo niente, la vostra presenza non basta, ci servirebbe qualcosa di più strutturale, ma voi siete la goccia nel mare. Se ci togliete anche questa, rimane un mare nero che ci risucchia, voi invece siete un’onda positiva, che speriamo possa creare altre onde”. Bastogi è un contesto che per trent’anni è stato ghettizzato, è quindi un contesto molto chiuso, che è difficile ora aprire all’esterno. Chi ci abita ha perso ogni speranza di riuscire a integrarsi con quello che c’è fuori».


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