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Il Consiglio per i diritti umani e la posizione degli Stati Uniti

by Redazione

Dopo cinque mesi di estenuanti trattative, la scorsa settimana è stato ufficialmente varato il Consiglio per i diritti umani che prende il posto della vecchia e screditata Commissione. Si tratta di «una risoluzione storica che dà alle Nazioni Unite la possibilità…di una nuova partenza nel loro lavoro in favore dei diritti umani del mondo» ha dichiarato il segretario generale del Palazzo di Vetro, Kofi Annan.

Qual è la differenza tra i due organismi?

Rispetto alla Commissione, il Consiglio presenterà una composizione più ristretta con 47 membri, contro i precedenti 53, eletti a maggioranza semplice dall’Assemblea Generale, si riunirà tre volte l’anno e non più una sola volta e avrà il compito principale di esaminare periodicamente la situazione dei diritti umani in ogni paese, a cominciare proprio dagli stati presenti al suo interno.
Sul futuro del nuovo organismo pesa, però, la posizione degli Stati Uniti che, al momento del voto, si sono espressi contrariamente. Washington ha, infatti, criticato la riforma definendola superficiale e ha avanzato delle riserve sull’efficienza dell’appena costituito organo, senza tuttavia sconfessarlo. In luogo della delegittimata Commissione, che non si è certo distinta negli anni per efficienza e trasparenza, gli Stati Uniti avrebbero voluto un organismo ridimensionato a soli 30 membri, eletti a maggioranza qualificata dall’Assemblea Generale per evitare la possibilità che nazioni colpevoli di violazioni di diritti umani ne potessero entrare a far parte, come accadeva in seno al precedente organismo internazionale, dove l’adozione di un meccanismo arbitrario di assegnazione dei seggi non ha impedito a regimi repressivi, come Sudan, Nepal o Arabia Saudita, di diventarne membri.
Probabilmente le misure proposte per evitare di incorrere in questo pericolo sono effettivamente insufficienti e perplessità in tal senso sono state espresse anche da numerose altre potenze occidentali, ma rinviare la decisione e riaprire i negoziati, così come era stato proposto dall’ambasciatore americano Bolton, avrebbe messo a rischio l’intero sforzo di sostituire la vecchia Commissione, giudicata ormai unanimemente incapace di adempiere alla propria missione.
Indubbiamente siamo in presenza di una svolta storica, che non a caso ha anche incontrato il parere favorevole di organizzazioni indipendenti, che, tuttavia, è anche densa di incognite sulla cui effettività saranno la prassi e il tempo a giudicare.
Questa vicenda conduce anche ad altre riflessioni.
Innanzitutto mette in evidenza un chiaro nodo politico circa il ruolo che dovranno avere le grandi nazioni e le aggregazioni continentali nella riforma delle Nazioni Unite.
In altre parole, occorre salvaguardare la “mission” dell’ONU ma ripensare i criteri di composizione dei poteri, assegnati all’atto della sua istituzione, ai Paesi usciti vincitori dalla guerra.

Un secondo tornante di assoluta importanza e difficoltà, pare essere quello relativo ad una sorta di denominatore etico dei Paesi membri. Fino ad oggi è sembrato essere: mai più guerre. Ora, con tutta evidenza, questo non basta più: finita la guerra fredda, dissoltosi il blocco sovietico, internazionalizzatisi e divenuti asimmetrici i conflitti, esistono nuovi fronti che il mondo chiede all’ONU di presidiare. Nella consapevolezza delle normative internazionali e di ciò che le Nazioni Unite non possono essere, emerge tuttavia un bisogno nuovo di favorire condizioni accettabili per convincere gli Stati a cedere effettiva sovranità a questo organismo.
(20 marzo 2006)

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