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Trend demografici e flussi migratori: una questione aperta

by Redazione

E’ nato il 300milionesimo americano, probabilmente figlio di una latino-americana immigrata, secondo il conto alla rovescia del Census Bureau statunitense rilanciato dai media italiani. Nel 2043 la popolazione americana sarà circa 400 milioni, si raddoppierà in meno di un secolo.
Mentre la popolazione europea, secondo le stime delle Nazioni Unite, subirà un calo dello 0.4% da oggi al 2050 (al netto dell’immigrazione) l’esplosione demografica dell’Africa sub-sahariana – i Paesi dell’area raddoppieranno o triplicheranno la popolazione secondo l’americano Population Reference Bureau – rischia di far cadere in una spirale di povertà e di malattie le popolazioni più povere del pianeta. L’incremento demografico si unisce purtroppo al drammatico peggioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione minacciata da guerre, instabilità politica, carestie, epidemie. Basti pensare che alcuni dei Paesi più poveri come la Nigeria, l’Etiopia e la Repubblica Democratica del Congo potrebbero diventare tra i più popolosi del mondo.

Due fattori incideranno in larga misura sulla crescita demografica: il tasso di natalità e la l’aspettativa di vita connessa al tasso di mortalità, che sono determinati in buona parte dal contesto socio – culturale e dalle condizioni socio-economiche delle popolazioni. Per questo motivo anche ai profani risulta chiaro la difficoltà di stimare la crescita demografica futura, soprattutto considerando le possibilità offerte dalle nuove tecnologie sull’allungamento della vita. Le Nazioni Unite fanno tre diverse stime, quella media prevede una crescita del 50% sulla popolazione odierna, raggiungendo la cifra di quasi 9 miliardi.

Il controverso tema del modello di sviluppo demografico e del suo rapporto con i fenomeni migratori e di integrazione sono di estrema attualità. I dati ce lo confermano: il numero di persone che vivono fuori dal proprio Paese di nascita è quasi raddoppiato negli ultimi 50 anni, raggiungendo i 191 milioni nel 2005. Le donne costituiscono adesso quasi la metà di tutti i migranti, e dominano il flusso migratorio verso i Paesi maggiormente industrializzati.

Il comportamento di molte migranti che accedono a informazioni e servizi sulla salute riproduttiva, di cui sono privi nei Paesi d’origine, ci consente di considerare che l’accesso alle informazioni e ai servizi sanitari – compresi quelli connessi alla gravidanza e per la prevenzione e la cura dell’HIV o di altre malattie a trasmissione sessuale – potrebbe avere un effetto sostanziale sulla capacità delle donne di prendere delle decisioni consapevoli relativamente all’utilizzo o meno di metodi di pianificazione familiare. Il tasso di fecondità delle migranti, come sostenuto dall’UNFPA (Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, “Lo stato della Popolazione nel mondo” – 2006), dipende soprattutto dalla comunità di appartenenza, ma anche dalla condizione socio-economica della donna, dalle norme culturali sulla fecondità e dall’accesso ai servizi di salute riproduttiva nel Paese ospite. In effetti molti migranti adottano gli stili di vita del Paese in cui vivono con tassi di natalità non dissimili alla popolazione di accoglienza. Così gli effetti dell’immigrazione sull’invecchiamento della popolazione residente a lungo termine vengono meno.

Di fronte all’inevitabilità dei processi migratori, dovuti alle crescenti differenze demografiche ed economiche tra nazioni (Organizzazione Internazionale del Lavoro – 2004), il contributo dell’immigrazione ai cambiamenti demografici, alla riduzione della popolazione e della forza lavoro in Europa, e in generale alla sua crescita economica, ha bisogno di una gestione coordinata non solo di politiche di inclusione, ma anche demografiche e di cooperazione allo sviluppo in partnerariato con i Paesi di provenienza, per evitare il rischio di sovraccaricare la capacità di integrazione dell’Europa. Nei Paesi a più intenso declino demografico come l’Italia la domanda di manodopera qualificata – di cui hanno beneficiato altri Paesi come l’Irlanda – si accompagna al fabbisogno di manodopera a bassa qualificazione. Questo richiederebbe un reale coordinamento tra i vari Paesi del Mediterraneo, tramite accordi con gli Stati di origine in modo da contrastare la migrazione clandestina, investendo anche nel capitale umano di cui essi si privano. La così detta fuga dei cervelli è un fenomeno non trascurabile, considerando per esempio che il 40% degli adulti di Turchia e Marocco, in possesso di un titolo universitario, risiede oggi in un paese ricco dell’ OCSE e il 90% di quanti hanno conseguito il dottorato di ricerca in chimica nei Paesi in via di sviluppo risiede all’estero.

Non siamo certo all’anno zero dell’impegno dell’Unione e dei singoli Paesi europei nell’aiuto allo sviluppo, essa infatti fornisce oltre metà del sostegno finanziario globale, ma si tratta di rispondere alle ineludibili sfide presenti e future.
In effetti, mentre il Professor Putnam mette in discussione le politiche occidentali di integrazione, la questione della crescita demografica nel Sud del mondo e del suo rapporto con i fenomeni migratori nei Paesi industrializzati, soprattutto nel continente europeo, assume un’importanza non secondaria.

                                                                                                                           Dario Porta

(30 ottobre 2006)


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