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Don Lorenzo Milani 50 anni dopo 

by Redazione

Il 26 giugno 1967 ricorre anche il cinquantesimo anniversario della morte di don Milani e ricordare il suo messaggio non è solo doveroso ma soprattutto utile per tutti e in particolar modo per le nuove generazioni. Una figura di sacerdote cattolico, di maestro e di educatore a cui in tanti dobbiamo tanto.

Ho letto Meridiani  Mondadori “Tutte le Opere di don Lorenzo Milani” con alcuni inediti di estremo interesse. Ho letto per la prima volta le sue opere nei primi anni ’70 quando decidevo di fare l’obiezione di coscienza e partire per il servizio civile internazionale alternativo.  Mi ha convinto a fare il maestro. Ho iniziato a farlo in Amazzonia con gli indios del Brasile e tanto in tale scelta c’è delle riflessioni fatte leggendo Esperienze Pastorali, l’Obbedienza non è più una virtù e Lettera a una professoressa.

La lettura poi delle lettere e della biografia scritta da Neera Fallaci nel 1974 mi hanno fatto amare questa persona come se fosse un padre, un amico, uno con cui avresti condiviso non solo ideali e valori ma anche il destino. E sofferto delle sue sofferenze.

La condivisione della ricerca di assoluto. E la quotidiana fatica di capire in che cosa consiste ciò e come essere coerenti a tale scelta fondamentale.

La sete di giustizia, di libertà ma soprattutto di uguaglianza. In un mondo pieno di discriminazioni e di  privilegi.

La scelta di stare con gli ultimi e con gli esclusi per rispondere ad alcuni comandamenti :

“Ama il prossimo tuo,perché solo così si capisce se rispetti l’altro comandamento dell’amare Dio sopra ogni cosa”.

“Non si può amare tutti, ma solo le decine di persone con cui vivi in prossimità ogni giorno”.  E la scelta di vivere in un villaggio di montagna o in tante sperdute Barbiana del mondo obbliga ad amare gente povera, esclusa, oppressa e a condividere le loro lotte e speranze.

E vivendo in Italia il rispetto della Costituzione e la sua radicale applicazione :

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione,di opinioni politiche di condizioni personali e sociali”.

E soprattutto “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

E l’ostacolo maggiore è quello di condividere la cultura e la capacità di esprimerla anche parlando : “Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci venti volte   per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi”. (Lettera al direttore del Giornale del mattino del 28 marzo 1956)

“La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. [….] Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata. Un’utopia? No. E te lo spiego con un esempio. Un medico oggi quando parla con un ingegnere o con un avvocato discute da pari a pari. Ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola. Ebbene a questa parità si può portare l’operaio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Questa non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita di ogni uomo, dal primo all’ultimo che si vuol dir uomo”. 

Condividere il sapere, condividere le lotte politiche per ottenere ciò.

“Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”.

E l’insegnamento contenuto in Lettera a una professoressa . “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia… Occorre avere davanti un obiettivo alto. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte… Così abbiamo capito cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi…

Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali.

E nella Lettera ai giudici che lo processavano per apologia di reato come difensore degli obiettori di coscienza definiti come vili in un comunicato fatto da cappellani militari :

“La scuola […] è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione…

“In quanto alla loro vita di giovani di domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è di obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando non sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate..(da Lettera ai giudici).

Una visione che supera confini nazionalistici e richiama a una cittadinanza globale per raddrizzare un mondo ingiusto e rendere anche Barbiana più giusta :

“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”…  (L’obbedienza non è più una virtù)

Ma non si dimentica che la visione totalizzante di don Milani è la profonda fede nel Dio cristiano e la sua prospettiva non è la storia ma la vita eterna.

Nella lettera al comunista Pipetta lo sottolinea con chiarezza :

… Ma dimmi Pipetta, m’hai inteso davvero? E’ un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori. San Paolo non faceva così. E quel caso è stato quel 18 aprile che ha sconfitto insieme ai tuoi torti anche le tue ragioni. E solo perché ho avuto la disgrazia di vincere che… Mi piego, Pipetta, a soffrire con te delle ingiustizie. Ma credi, mi piego con ripugnanza. Lascia che te lo dica a te solo. Che me ne sarebbe importato a me della tua miseria?

Se vincevi te, credimi Pipetta, io non sarei più stato dalla tua. Ti manca il pane? Che vuoi che me ne importasse a me, quando avevo la coscienza pulita di non averne più di te, che vuoi che me ne importasse a me che vorrei parlarti solo di quell’altro Pane che tu dal giorno che tornasti da prigioniero e venisti colla tua mamma a prenderlo non m’hai più chiesto. Pipetta, tutto passa. Per chi muore piagato sull’uscio dei ricchi, di là c’è il Pane di Dio.  E solo questo che il mio Signore m’aveva detto di dirti. E’ la storia che mi s’è buttata contro, è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta. Ora che il ricco t’ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco. Ma non me lo dire per questo, Pipetta, ch’io sono l’unico prete a posto. Tu credi di farmi piacere. E invece strofini sale sulla mia ferita. E se la storia non mi si fosse buttata contro, se il 18… non m’avresti mai veduto scendere lì in basso, a combattere i ricchi. Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione. Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione. Ma come è poca parola questa che tu m’hai fatto dire. Come è poco capace di aprirti il Paradiso questa frase giusta che tu m’hai fatto dire. Pipetta, fratello, quando per ogni tua miseria io patirò due miserie, quando per ogni tua sconfitta io patirò due sconfitte, Pipetta quel giorno, lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più come dico ora: “Hai ragione”. Quel giorno finalmente potrò riaprire la bocca all’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro”. Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati i… fame e sete”.

Aspetti che la Chiesa del suo tempo non ha capito. La persecuzione cattiva del  cardinal Florit e i suoi collaboratori della curia fiorentina hanno portato a esiliarlo in montagna; il cardinale Ottaviani e il Santo Uffizio a ritirare il suo libro con il supporto di Padre Perego, gesuita di Civiltà cattolica. E la sofferenza di don Milani che teneva sopra ogni cosa ad essere coerente con la sua scelta totalizzante  di essere un prete cattolico e maestro ortodosso di una Chiesa di cui si sentiva parte integrante e di cui aveva bisogno “per il perdono dei peccati e per la vita eterna”.

Oggi Papa Francesco, i gesuiti, la chiesa fiorentina gli riconoscono ciò.  E lo Spirito continua a soffiare dove vuole anche lontano dai templi consacrati.


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