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Abbiamo sognato e continueremo a sognare

by Redazione

Non ricordo chi scrisse che una vita, se vita vera è stata, dovrebbe poter essere raccontata in due o tre episodi. Non di più. Come la grandezza di Dio sta tutta nel palmo della mano di un bambino e la bellezza è contenuta interamente negli occhi di quella stessa donna che hai amato per quarant’anni, allo stesso modo occorre che le parole siano poche e sappiano dire molto.

Mi sembra incredibile che siano trascorsi vent’anni da quando abbiamo costituito Nessun Luogo è Lontano. Se ci penso mi sembra ancora di sentire la noia che provavo dal notaio il giorno dell’atto costitutivo, una noia mortale. Dentisti e notai mi fanno provare due sole sensazioni: noia e fastidio, perché non sai mai a che ora prendere l’appuntamento successivo, possono trattenerti per ore.

Tornando a noi, mi sono assunto volentieri il compito di fare l’introduzione a questo libro sui nostri vent’anni e voglio farlo secondo premessa: le due o tre cose che abbiamo capito in questi vent’anni, che non sono poche se queste due o tre sono le stesse che ancora oggi danno un senso a ciò che siamo. Tutto il resto è stata utile quotidianità o anche quotidianità inutile, forse, ma sempre spesa in coscienza e stando sempre dalla stessa parte. Ricordo in proposito quanto diceva Enzo Biagi: «sono stato spesso cretino ma mai per compiacere qualcuno». È valso anche per noi. Abbiamo anche sbagliato, ma sempre rispondendo solo alla nostra coerenza. E a nessun altro.

E non è sempre stato facile.

Tre cose che abbiamo capito. Partiamo dalle due o tre cose che abbiamo capito: prima di tutto l’educazione dei giovani. Essa dovrebbe diventare patrimonio dell’Unesco. Educarli alla libertà, che è poi l’unica educazione che conti e la più difficile scelta da realizzare. Perché la libertà ha in sé il rigore della responsabilità. Abbiamo scritto, operato, aperto Centri, sempre con questo stesso chiodo in testa: soprattutto sul tema dell’immigrazione, gli adulti puoi al massimo metterli in condizione di non fare troppi danni, l’unico sforzo che valga la pena di essere fatto è provare ad educare i giovani, perché non dimentichino mai il valore, il profumo e la bellezza di parole come Giustizia, Eguaglianza, Democrazia, Pace. E questo vale per tutti, italiani di nascita o di destino. Educarli a che siano abbastanza forti dal sapersi infischiare di chi dirà loro, che queste sono vuote parole del secolo scorso: educarli a sapere che di vuoto ci sono solo le zucche di chi dice certe bestialità.

La seconda cosa che abbiamo imparato è che l’immigrazione è il fatto sociale più straordinario e complicato dell’era moderna. E su un terreno così difficile dove convergono economia, finanza, geopolitica, crisi ambientali, demografia e milioni di altre cose, nessuno può essere lasciato solo: guai se nelle società contemporanee lasciassimo la cosa pubblica in mano solo alla politica e agli Stati; ma guai anche se lasciassimo tutta la gestione alle ONG o, più in generale, al Terzo settore. Il valore della modernità è che ogni soggetto serve ad arricchire gli altri e a contenerne il potere. Un’associazione come la nostra è parte consapevole e responsabile del Terzo settore e del volontariato, ma ci rifiutiamo di diventare parte di uno schema chiuso, con la realtà divisa in categorie. Il discorso pubblico ha bisogno di tutti, la società intermedia ha senso solo se è plurale.

La terza cosa che abbiamo capito è che l’immigrazione è una spinta problematica e vitale verso il futuro ma è soprattutto storia di chi è più debole. E il nostro posto è lì. Senza pietismi o demagogie, ma è lì. Le migrazioni sono storie di continenti, non c’è dubbio, come non c’è neanche dubbio che esse restino storie di persone, di donne, di uomini, di bambini, che attraversano la propria storia nel mondo passando dagli scantinati e quasi sempre restandoci. Storie individuali, che ci restituiscono l’immagine di un fallimento, di un mondo costruito in modo ingiusto e di cui siamo parte responsabile anche se non sempre artefice: con le mostruose crescenti ingiustizie che, lo sappiamo tutti, non potranno durare.

Ci sarebbe un’altra cosa di cui parlare. Come abbiamo vissuto il nostro rapporto educativo con ragazzi in massima parte di fede e tradizione musulmana. Ma è un tema che sentiamo talmente da avergli dedicato un capitolo a sé.

Tutte qui le cose davvero importanti che abbiamo imparato? Sì, tutte qui, se è vero che abbiamo detto “davvero importanti”.

Da quanto detto, scaturiscono le cose che abbiamo fatto. Sempre restando non sulle più grandi, né sulle più difficili o onerose. Vorrei citare le più importanti, cioè quelle che ci somigliano di più.

Tre (delle tante)  cose che abbiamo fatto

La prima è la Campagna che chiamammo “RADIOLIBERATUTTE”. Attraverso un nostro dirigente, avevamo saputo che in Burkina Faso, dove lui è nato, un gruppo di donne, per lo più medici e avvocati, avevano comprato un vecchio camion sul quale avevano installato una piccola emittente radiofonica. Una unità mobile con cui girare il Paese, per spiegare alle donne burkinabè che l’infibulazione non c’entra nulla con la religione islamica, non rappresenta un precetto né un comandamento; essa è retaggio antichissimo di un mondo per questi aspetti orrendo, in cui tradizioni bellissime vengono conservate accanto a credenze disumane come questa. Solo che le organizzatrici, più generose che esperte, avevano sottovalutato che, almeno nei primi anni 2000, la corrente elettrica mancava nel 95% del Paese e le batterie elettriche erano rare e di pessima qualità. Noi decidemmo di aderire alla Campagna perché ci piaceva che fosse un’idea nata lì e non esportata dai “buoni coloni occidentali”; ci piaceva perché era una cosa delle donne per le donne; ci piaceva perché per una volta tanto non distribuiva pane, ma informazione e dunque diritti. Il sottotitolo che demmo alla campagna fu Il pane sfama, l’informazione libera. E facemmo una cosa semplicissima: riuscimmo con grande fatica a raccogliere un po’ più di 10mila euro, comprammo da un produttore inglese circa mille radio a manovella ed energia solare e le spedimmo. Le radio vennero distribuite nei villaggi dove piccoli e diffusi gruppi di donne si radunavano sotto i grandi baobab e ascoltavano. Una cosa di cui siamo ancora orgogliosi.

La seconda cosa che forse vale la pena raccontare è stata la campagna per la riduzione del danno inflitto dalla Legge Bossi-Fini all’immigrazione. Una legge rabbiosa, inutilmente cattiva, che sbandierava la lotta ai clandestini e allevava la clandestinità come il grembo amorevole e il seno enorme di una nutrice emiliana. Ci scatenammo: documenti, alleanze con realtà molto più grandi di noi, come il Masci, la Caritas, le Acli ed altri. Audizioni in sede di Commissione Affari Costituzionali. Avevamo bisogno di un parlamentare della maggioranza che ci presentasse qualche nostro emendamento, per contenere quella infausta legge. Trovammo Alessandro Forlani, dell’UDC, che accettò e che ringrazio ancora: quella legge era e restò brutta, ma se oggi i migranti alla frontiera hanno diritto ad un mediatore culturale che parla la loro lingua, è merito nostro.

Devo scegliere la terza iniziativa da ricordare. È sempre difficile selezionare tra cose che ami più o meno tutte, ma la ricerca della sobrietà è un motivo conduttore di Nessun Luogo dalla sua nascita. Fa bene Paola Springhetti ad impormi di dire ciò che è giusto dire, ma io penso anche, che così come l’uso eccessivo di panna in cucina o di spezie forti serva solo a coprire le magagne di un cibo mezzo guasto, così l’enfasi eccessiva su ciò che si è fatto, tende spesso a coprire ciò che non si è fatto.

Citerò la campagna on line che chiamammo “I Figli dell’Oca Bianca”. Era il 2001 e il centro destra era appena tornato al governo. Aveva stravinto. Mise in cantiere subito un suo impegno di campagna elettorale: il bonus bebè, per rilanciare la maternità. La caduta demografica già da tempo mordeva. Ho sempre pensato che quella maggioranza si diede da fare subito con encomiabile ardore più per escludere le mamme immigrate dal bonus, che per amore delle famiglie italiane. Noi volevamo che il bonus andasse a tutte le mamme, almeno le regolarmente soggiornanti. Non vincemmo subito, vincemmo dopo qualche anno.

L’ultima iniziativa che citerò è gravosa da decidere. Non posso citarne ancora, ma mi scoccia per quelle che non potrò dire: la “Casa di Laura” in Etiopia, “Democracy Building” sul diritto di voto (che fu una mastodontica azione durata 7 anni), “Lettere da Barbiana” sull’educazione permanente, “Archeonomadi”, sul lavoro Rom. Tutte le abbiamo indistintamente nel cuore. Citerò invece “Rinasco in Periferia”, non perché sia la più bella o meritevole di menzione, ma perché è la Campagna che dobbiamo ancora fare. Io sono certo infatti, che davvero chi non ha memoria non ha futuro, ma che senso avrebbe camminare con la testa rivolta solo al passato? L’impegno e la battaglia più belli sono quelli ancora da fare.

“Rinasco in Periferia” nascerà a Bastogi, periferia a nord di Roma, dove siamo presenti da dodici anni. L’obiettivo che abbiamo è contribuire a porre al centro del dibattito la questione delle periferie, luoghi di dolore ma anche di vita. C’è bisogno, io credo, di fare battaglie concrete e al contempo simboliche, sull’educazione dei giovani, sulla parità di genere come bene non negoziabile; battaglie che vogliono portare il germe di una società civile da reinventare, consapevoli che non tutto ciò che è moderno è bene e non tutto ciò che è antico è male. Ci sono obiettivi di giustizia sociale che non tramontano. Vogliamo gettare il seme di una rinnovata consapevolezza, quella dei diritti e della parità. Proveremo anche a fare piccole rivoluzioni, come portare la letteratura in periferia e la gente di periferia a teatro o ad una mostra. Solo sapere e conoscere rende liberi. E a coloro che ci invitano ad essere pratici, a lasciare perdere i sogni e fare cose concrete, perché la gente vuole solo casa e lavoro, noi rispondiamo che diritti del genere deve garantirli lo Stato, mentre a quelli come noi della società civile organizzata, tocca il compito di divulgare consapevolezza, risvegliare coscienze, scuotere chi si è intorpidito per tanti motivi ma mai sufficienti.

Continueremo a sognare

Dalle cose che ho citato sembrerebbero emergere solo cose buone. Non è questa la verità, non sarebbe possibile averle azzeccate tutte. Non enumererò gli errori o le occasioni mancate, potrei eccedere in giustificazioni, sicuramente ce ne sono state, fidatevi! Il punto è che Nessun Luogo è lontano rappresenta aritmeticamente un terzo della mia esistenza: alla mia vita ha dato senso, e ha dato da penare. Ma quello che è certo che mi sono identificato con questa associazione e non sarei potuto stare da nessun’altra parte. Quindi è stucchevole parlare dei nostri errori, perché amo troppo questa associazione, per non amare anche i suoi limiti. Auguro a tutti di avere nella vita qualcosa, vita privata a parte, di così forte e coinvolgente in cui credere.

Devo per forza concludere queste righe, ponendomi qualche inevitabile domanda. Come saranno i prossimi anni? Come affronteremo, oltre al resto, le asimmetrie e gli sconvolgimenti determinati dalle migrazioni forzate indotte da spoliazioni? Dove troveremo il pane di classi dirigenti adeguate che plachi la nostra fame di guide che sappiano ciò che fanno? Stati Uniti, Russia e Cina hanno leader a dir poco controversi, che in tema di diritti umani non sono proprio dei campioni; ci sono poi uno sterminato numero di leader sanguinari, come neanche nel Medioevo ed un crescente gruppo di capi di Stato e di governo, nazionalisti e fascistoidi. L’Europa è in parte diversa, perché di leader non ne ha nessuno. E la cosa non è proprio il massimo. Non siamo oggettivamente messi bene e non mi consola affatto sapere che non sono io a dover trovare la soluzione. Non mi consola perché so che i conti degli incapaci al potere li pagano sempre quelli che non c’entrano. In questo senso, le migrazioni a cui assistiamo sono lo specchio fedele di questa realtà.

Ma dobbiamo aver chiaro che constatare questo deserto di leadership, un Deserto dei Padri, titolò un suo splendido libro il Cardinal Martini, questa permanenza del mondo in una eterna incertezza, questa vertigine da vuoto che tutti a volte sentiamo nello stomaco non solo non giustifica che si lasci il campo, ma esige anzi che ogni sforzo, sia raddoppiato. Come se dovessimo diventare più di noi stessi e fare, per davvero, tutta intera la nostra parte.

Questa introduzione conclude un libro di ricordi ma anche di futuro, non  caso si intitola “Abbiamo sognato e continueremo a sognare”. Esso rappresenta bene la nostra ostinata fiducia nell’uomo, la cocciuta speranza che la vita può essere migliore solo se ognuno fa la sua parte, la consapevolezza che se si perde la voglia di avere qualcosa di grande in cui credere si comincia a coltivare un paganesimo demente fatto di divinità facili e morte. Un dio venerato, amato, che vince sempre e sempre barando. Mercato, tecnologie, denaro, costituiscono il panorama di tutti noi, la differenza è tra chi confonde il fine col mezzo, lo strumento con lo scopo e che non mette l’uomo al centro di ogni processo e di ogni futuro. Mi spiace un po’ dare a queste righe finali il tono ieratico dell’omelia, mi dispiace perché, da cristiano, mi percepisco per lo più come peccatore, dunque indegno di fare sermoni a chiunque. Io voglio infatti solo ringraziare i miei vecchi e nuovi compagni di viaggio, per la loro amicizia, la loro competenza, la loro passione. Che ho sperimentato in modo speciale in un recente non facile periodo della mia vita. Per me, essere in Nessun Luogo vuol dire stare con loro. Vent’anni non sono pochi e molti di quelli che c’erano, come me, sono più vecchi e più pazienti di quando abbiamo cominciato. Non saprei dire se più saggi.

Diciamo che, per fortuna, nessuno di noi è diventato saggio abbastanza da tirare i remi in barca e siamo ancora qui, a lottare e a sperare.

Fabrizio Molina                                                                                                                  10.4.2018


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