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Breve storia della piccola Dijana

by Redazione

Di Beppe Casucci, contributo al ROM Pride 2014

Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla (Lao Tzu)

Dijana apparteneva all’etnia Sinti Karakhané, di religione mussulmana e di origine slava. Aveva da poco compiuto 11 anni, età che da lì a poco l’avrebbe portata oltre la soglia dell’adolescenza. Aveva capelli castano chiaro, lucenti e pettinati con un discrimine al centro. Occhi scuri e viso dai tratti vagamente indoeuropei. Era vestita con una camicia colorata a fiori ed una gonna scura che ne falsavano l’età. Alle orecchie due pesanti pendenti. Nella sua famiglia non si era mai praticato il furto preferendo lavorare nel mondo dello spettacolo nomade o, al limite “fare manghel” (chiedere l’elemosina, ma solo le donne). Purtroppo lavorare nel mondo dei giostrai era diventato sempre più difficile, anche per gli alti costi, le tasse da pagare ed i rifiuti dei permessi da parte di molte amministrazioni comunali, nonché l’ostilità generale dei Gagè. Alcuni membri della sua famiglia si erano messi a raccogliere e vendere roba usata anche nei cassonetti, un lavoro da ROM spesso additato con disprezzo da parte dei vecchi del clan. I maschi rifiutavano con sdegno lavori che non fossero in linea con la loro tradizione Sinti (lavorazione dei metalli, musicisti, giostrai, allevatori di cavalli), ma non disdegnavano che ad uscire dalla tradizione fossero le loro donne: specie chiedere l’elemosina.
Dijana era arrivata in Italia da piccola, assieme ad un gruppo di giostrai Sinti quasi tutti parenti, provenienti da Livno in Bosnia da dove erano scappati nel ’94 ai tempi della guerra. La famiglia aveva girato per anni in Europa prima di entrare nel Belpaese nel 2007 per raggiungere altri familiari che si erano sistemati alla meglio in un campo nomadi a Castel Romano sulla via Pontina.
Da allora era stato un calvario: il permesso di stare a Castel Romano era solo per i loro parenti e, dopo un breve soggiorno, la sua famiglia era stata invitata rudemente a sgomberare. Avevano visitato i maggiori campi nomadi della capitale: da Casilino 900, a via Salviati; da via Gordiani a quello di Baiardo a Tor di Quinto; dal campo della Cesarina, fino a sotto il cavalcavia Nuttal o sotto le arcate del Ponte della Magliana. Dovunque andassero incontravano l’ostilità di altre famiglie o comunità Rom o l’aperta opposizione delle autorità o dei cittadini della zona.
Di acqua per lavarsi, neanche a parlarne: ci si doveva arrangiare con quella di qualche fontana pubblica. L’elettricità non era un problema: bastava collegarsi ad un traliccio, anche se era molto rischioso.
Dijana non andava a scuola. Ci aveva provato molte volte con l’aiuto di volontari delle associazioni. Quando stava al Casilino ‘900, all’incrocio tra la Casilina e la Palmiro Togliatti, lei aveva soggiornato lì per alcuni mesi. Nel campo vivevano quasi 650 persone, la gran parte provenienti dalla Bosnia, Kosovo e Montenegro. Niente corrente elettrica ed alla sera, chi poteva accendeva i gruppi elettrogeni, tra la puzza generale di kerosene.
Per l’acqua c’era un’unica fontanella pubblica e bisognava fare la fila per riempire taniche e pentole. Per servizi igienici c’erano gli scheletri dei bagni chimici ormai in disuso che nessuno puliva e che erano diventati focolaio di infezioni. Il panorama, tutto attorno, era di baracche composte da pezzi di compensato, alluminio ed Eternit con buona pace per la legge che ha messo al bando l’amianto. E la notte era meglio non uscire perché l’ambiente era infestato da topi dalle dimensioni inquietanti.
La casa di Dijana era formata da 4 roulotte parcheggiate a rettangolo con al centro un piccolo spazio per la famiglia: una misera corte, con un grande tavolo bianco sporco di plastica al centro, le sedie diseguali tutto intorno. Qui tra polvere, spazzatura, pozzanghere, puzza di kerosene e falò nella notte, viveva la famiglia Sinti della piccola Djana: uomini con monili, orologi e grandi cappelli che si esprimono ad alta voce, spesso gridando; donne con vestiti a gonna lunga e colori sgargianti, che rispondono per le rime ma che non contano nelle decisioni finali del clan. Bambini spesso laceri che scorrazzano tra la polvere o sulla ghiaia. Privi spesso di tutto, ma lo stesso felici.
Dijana e la sua famiglia rimase al Casilino ‘900 un tempo sufficiente perché un’associazione si avvicinasse a parlare con i genitori sull’opportunità, oltre che sull’obbligo, di dare un’istruzione ai figli. Volontari dell’associazione, giovani precari, venivano ogni mattina con un pulmino, caricavano una ventina di bambini, davano loro un sacchetto di plastica con scarna colazione (panino con prosciutto e formaggio e succo di frutta) e li portavano al Pigneto o a Tor Pignattara, dove venivano suddivisi nelle scuole elementari dell’area.
Bambini Romanì che vanno a scuola dunque ci sono, ma non hanno acqua pulita e sapone per lavarsi o vestiti per cambiarsi e sono sporchi perché tutto il giorno giocano tra la polvere e le pozzanghere e sono facile preda di pidocchi. A lei era toccata la Carlo Pisacane, a via di Acqua Bullicante al Tor Pignattara, dove arrivava sistematicamente in ritardo.
L’esperienza era stata devastante: non era stato il rifiuto e l’isolamento da parte di altri bambini a pesare di più: coetanei che non le rivolgevano la parola e la guardavano di sottecchi o con disprezzo. A volte le gridavano insulti, spesso ripetendo i discorsi dei propri genitori.
Era soprattutto l’atteggiamento degli insegnanti a bruciare, ad infliggere a Dijana le peggiori umiliazioni.
Il primo giorno l’avevano obbligata a fare una doccia prima di entrare in classe (per il suo bene, le avevano detto). Lei si era molto vergognata ed aveva reagito con forza: “non c’è acqua per lavarmi dove vivo: non è facile come per voi”. Il suo commento era stato accolto da sguardi di finta commiserazione e da un bruciante rimprovero della preside che aveva minacciato: “se domani torni così, qui non entri!”.
Quando poi era entrata nell’aula, la maestra l’aveva inelegantemente presentata come l’alunna zingarella, termine inesatto ed offensivo, specie per i Sinti.
Inutile dire che era stata lasciata da sola a scaldare il banco, senza nessun aiuto individuale.
Dopo alcuni giorni, un gruppo di mamme si era rivolto alla preside denunciando una epidemia di pidocchi (non avevano mai dato direttamente la colpa a lei, tranne attraverso le occhiate malevole). I bidelli le avevano, comunque, cosparso il capo di una polvere bianca e l’avevano obbligata a rifare il bagno (sempre nel suo interesse, naturalmente).
Lei che era testarda aveva comunque insistito con i genitori di voler andare a scuola e tutte le mattine aspettava con impazienza l’arrivo del pulmino, sempre in ritardo dovendo fare numerose fermate.
La seconda settimana erano arrivati alcuni capi di vestiario vecchi, regalo della parrocchia di Sant’Elena del Pigneto, lì vicino. Vestiti che, arrivati a casa, le erano stati tolti dai parenti ed erano spariti: “una grave umiliazione”, aveva detto il padre: “non tollerabile per un Sinti ricevere degli stracci, specie se provenienti dai Gagè!”.
Intanto le sue difficoltà a capire le materie scolastiche ed il linguaggio usato dagli insegnanti rimanevano. La maestra non si avvicinava mai per chiederle se avesse bisogno di aiuto. Nessuno le aveva fatto un test d’ingresso per capire a quale livello di istruzione dovesse accedere: l’avevano infilata in una terza elementare, solo sulla base dell’età. Di libri, quaderni e materiale scolastico nessuna traccia.
Dijana era diventata sempre più inquieta, fino a soffrire il dover stare tutti i giorni isolata in una classe peraltro sovraffollata e in un ambiente freddo ed ostile. Non erano mancati alcuni litigi con i compagni: ma in questo, almeno, sapeva cavarsela e come difendersi.
Una cosa per lei positiva era poter mangiare alla mensa scolastica a pranzo e ricevere qualche capo di vestiario o giocattolo in regalo da parte di qualche adulto volenteroso.
Dopo la terza baruffa con i compagni, sempre provocata dagli altri, era arrivata una petizione dei loro genitori che chiedevano il suo allontanamento.
La proposta non era proprio di espellerla, ma solo di spostarla, magari in un’altra scuola: “perché tenerci noi ‘sta grana? – era il ragionamento neanche tanto velato – rifiliamola a qualcun altro”.
Come sempre il comportamento dei “gagè” verso gli zingari, rivelava una natura ambigua ed in qualche modo vile: i promotori della discriminazione non chiedevano l’espulsione per non sentirsi (o sentirsi dare dei) razzisti. Non si preoccupavano se la bambina si sentisse rifiutata dall’ambiente ostile o quali fossero le sue ragioni: per loro era una diversa, un’attaccabrighe e (potenzialmente) una ladra. Dunque, in quanto tale, andava allontanata perché la sua presenza in fondo rimordeva qualche cattiva coscienza.
Lei però si era rifiutata di andarsene e la cosa era degenerata, fino a che qualcuno ne aveva parlato ai giornali. Dijana voleva rimanere: più che l’anelito all’istruzione o la rabbia contro i soprusi, la tratteneva una ragione molto più pratica: lì almeno mangiava un pasto caldo tutti i giorni. Lo disse agli insegnanti, ai suoi genitori e ai volontari del pulmino, ma aveva tutti contro: la scuola, impreparata a dare risposte didattiche così complesse a problemi per cui gli insegnanti erano gravemente inadeguati; i genitori degli alunni per ignoranza e pregiudizi; ma anche l’associazione col pulmino (sotto minaccia di non essere più richiesta dalla scuola). Aveva contro perfino i suoi genitori (“che ti serve farti umiliare tutti i giorni dai gagè”). La proposta di ripiego era dunque quella di cambiare istituto. La briga era andata avanti alcuni giorni. Ma poi, ad inizio 2010, era arrivato lo sgombero e la distruzione del campo di Casilino ‘900. Tra i primi a doversene andare fu proprio la sua famiglia che si era infilata nel campo abusivamente. A nessuno importò se questo interrompeva il percorso scolastico dei bambini: per le autorità c’era l’imperativo delle norme dettate dall’”emergenza nomadi”; Per i genitori c’erano urgenze più importanti, soprattutto dove andare a dormire. E così era finita l’avventura scolastica di Dijana.

“Se non studi, però devi lavorare”, le aveva detto il padre. E questa era diventata una vera urgenza, specialmente dopo che la famiglia aveva trovato un provvisorio rifugio sotto le arcate del Ponte della Magliana. Dovevano cercare una sistemazione migliore e, dunque, avevano bisogno di soldi. Il suo rude ed ignorante ma autoritario genitore, una proposta ce l’aveva: quella di andare a “fare manghel” con la sorella maggiore, cioè chiedere l’elemosina facendo leva sulla giovane età, sugli stracci addosso e su qualche piccolo accorgimento per intenerire i Gagè. Che altro si poteva far fare ad una donna?
Il suo campo d’azione erano le linee della metropolitana di Roma.
C’era una condizione però che rendeva la vicenda ancor più sgradevole: lei e la sorella dovevano portare a casa almeno 100 euro a giorno a testa, altrimenti venivano punite. Le leggi del clan erano chiare: in famiglia il padre ha potere assoluto e bisogna ubbidire ai suoi comandi, senza eccezioni. Non importava come avessero fatto i soldi: chiedere l’elemosina o importunare qualche turista per la famiglia era lo stesso, quello che contava era il risultato.
In assenza di un guadagno giornaliero certo, il minimo che poteva loro capitare era di rimanere senza cena, ma poteva arrivare anche una buona dose di legnate.
C’era poi un altro problema: la famiglia avrebbe deciso con chi lei si sarebbe dovuta sposare. Stava già succedendo alla sorella ed a nulla erano servite le sue proteste e lamentele.
Quel giorno lasciarono volentieri il sottovia dove dormivano per raggiungere la fermata metro della Magliana. Per Dijana e la sorella Svetlana andare a scorrazzare nella metropolitana di Roma era in fondo un diversivo piacevole, tranne che per la spada di Damocle dei soldi da portare alla famiglia.
La sorella era da poco diventata maggiorenne e per lei poteva essere rischioso tentare uno scippo di qualche passeggero. A Dijana la cosa sembrava riprovevole e se ne vergognava, come anche le sembrava poco onorevole chiedere i soldi fingendo di stare male o contando sulla pietà della gente. Che sarebbe successo se incontrava in metro qualche compagno di scuola? Il solo pensiero la faceva rabbrividire.
Nei vagoni della metro, la sorella sciorinava la solita litania sulla guerra in Bosnia, ormai vecchia di vent’anni e praticamente ininfluente sui passeggeri romani smaliziati. Lei si limitava a passeggiare lungo il corridoio facendo lo slalom tra la gente e raccogliendo solo qualche centesimo.
Era forse un passeggero su cento ad impietosirsi: quasi tutti la guardavano con disprezzo e si scansavano al suo passaggio. Certo, si fa l’abitudine a tutto: ma questo rifiuto del contatto fisico e perfino degli sguardi diretti a Dijana faceva molto male.
Un giorno avevano fatto avanti indietro tra Conca D’oro e Laurentina sulla linea B. Erano poi usciti per comprarsi un panino ed erano risaliti a piazza Bologna. Dentro il vagone della metro, però, c’era un giovane musicista all’opera.
Era un chitarrista particolarmente dotato e stava cantando “Rimmel” di Francesco De Gregori.
“Canta e suona un angelo”, commentò rapita una giovane signora ai suoi vicini passeggeri: “magari fossero tutti così quelli che entrano nei mezzi pubblici per suonare”.
“E’ vero”, concordò un vicino annuendo. Aveva l’aria formale ed un pizzetto di tipo caprino. Ma aggiunse subito: “purtroppo è anche pieno di accattoni che vengono per mendicare…”. “O per rubare” interloquì un anziano dall’aria dimessa. Il vecchio signore non pareva molto coinvolto dalla performance del musicista, ma piuttosto preoccupato degli scippi. “Non lui, intendiamoci”, aggiunse poi vedendo lo sguardo di disapprovazione della donna accanto: “Questa però è un’eccezione”.
Vedendo un altro suonare, Svetlana evitò di iniziare la tiritera sulla Bosnia. Mentre Dijana sovrappensiero iniziò la solita passeggiata lungo il corridoio del vagone. Con la disinvoltura di chi è abituato alle piccole furbizie per sopravvivere, la ragazzina passò tra i passeggeri per chiedere soldi, cercando di intercettare le offerte rivolte al giovane chitarrista. Lui non mosse un muscolo: continuava nel suo spettacolo, osservando oltre al finestrino un punto distante al di fuori del treno e forse del tempo o della realtà. Ignorata dai più, la piccola Sinti arrivò a sfiorare il giovane e passò dietro la sua posizione. Nel farlo urtò, forse inavvertitamente, con la spalla il sacchetto delle offerte dell’artista facendolo oscillare.
Fu allora che una donna corpulenta nella fila di fronte reagì indignata. Era accomodata su di uno dei sedili a sinistra della porta, vista dirimpetto, cosa che gli permetteva di godersi gratis la performance musicale. Poteva avere un 45 anni, capelli tinti ed ondulati, corpo elefantiaco e vestito in lana marrone, demodè. Al momento in cui aveva urtato il sacchetto delle offerte, la giovane Rom si era fermata titubante, voltandosi come per offrire una scusa al musicista; ma non ne ebbe il tempo perché la cicciona si alzò di scatto e cominciò ad urlare: “dannata ladra, sta cercando di derubare il ragazzo”. Era incollerita e si agitava furibonda e rossa in viso: “l’ho vista bene mentre infilava la mano nel sacchetto, accusò: “E’ questo il loro mestiere: mendicare o rubare”. Il sudore le imperlava la fronte, mentre continuava nella filippica: “fermatele tutte e due. L’altra è certamente la complice: chiamate la polizia ferroviaria”.
Gli schiamazzi della grassona paralizzarono per alcuni istanti l’intero vagone, attirando l’attenzione degli altri passeggeri: nessuno però si mosse. La gitana più grande non intervenne per nulla, anzi si ritirò alla chetichella al bordo di una delle uscite.
“Io non ho fatto niente”, balbettava la ragazzina: guardava in direzione della sorella, che però abbassava lo sguardo e pareva incerta sul da farsi. Erano abituati alla diffidenza ed al disprezzo dei Gagè e la polizia non avrebbe certo creduto a loro.
In quell’istante il treno arrivò alla stazione di EUR – Magliana, dove normalmente il convoglio sosta di più: a volte fino a uno o due minuti, per il cambio di manovratore. Le porte si aprirono e la zingara più grande gridò qualcosa in dialetto romanì alla minore e uscì frettolosamente dal vagone.
La piccola, però, era come paralizzata e anche turbata dall’accusa di scippo. Non si mosse e cercò di attirare l’attenzione del musicista, apparentemente alieno alla contesa e impermeabile al trambusto.
La signora in sovrappeso si accorse della manovra di sganciamento della zingara più grande troppo tardi, ma abbastanza per gridare: “l’altra è scappata, non fate uscire anche questa. Chiamate la polizia!”.
“Polizia”, nel sentir gridare questa parola il musicista sembrò risvegliarsi da uno stato di torpore: smise di suonare e cominciò frettolosamente a rinfoderare lo strumento. Era palesemente spaventato: “no, no, niente polizia”, si agitò turbato. “Non mi ha rubato nulla”.
Ma la giunonica matrona non lo stava nemmeno a sentire: vista l’apatia degli altri passeggeri che non accennavano a reagire, la donna si era alzata ed aveva afferrato per un braccio la giovane Romanì, agitandola come fosse uno straccio: “è inutile negare, io ti ho visto, e posso testimoniare”. E poi perentoria si rivolse al musicista: “ Questa esce con me e anche lei” intimò al giovane con veemenza: “deve fare una denuncia formale per tentato scippo”. Poi, come rivolta agli altri: “ci sarà qualche poliziotto in questa stazione”.
Senza aspettare risposte, si diresse verso l’uscita, ancora spalancata ed in attesa del segnale di chiusura delle porte: “svelto, svelto” ordinò al giovane: “lei deve venire con me!”. Il chitarrista però non aveva alcuna voglia di uscire ed incontrare agenti di polizia e tergiversava. E la ragione era ovvia: dare spettacolo in un luogo pubblico senza permesso, può comportare una multa. Nel colloquio con gli agenti, sarebbe inevitabilmente venuto fuori cosa lui stava facendo nella metro, correndo il rischio di una reprimenda o peggio. Così l’intemperanza della signora poteva finire per costare cara alla supposta vittima. Mentre la ragazzina, essendo minore, correva in teoria meno rischi.
All’angolo opposto dello scompartimento, intanto, un passeggero aveva ripreso a leggere il suo libro, alla ricerca di un parallelismo tra la finzione di una scrittrice vittoriana e la cruda realtà quotidiana del ventunesimo secolo a Roma.
Ogni tanto alzava gli occhi per seguire la scena, ma sperava che la baruffa si esaurisse da sola, senza la necessità di un intervento esterno. Anche in lui prevaleva il senso comune di farsi gli affari propri.

Il sig. Guerra – così si chiamava il ragioniere – non riusciva più a concentrarsi in tutto il bailamme che agitava lo scompartimento. Staccò seccato il pensiero da Maggie Tulliver e la sua fame appassionata di autorealizzazione e chiuse il libro di colpo, decidendosi ad intervenire per mettere fine alla violenza consumata ai danni di una minore. Non era per lui un comportamento usuale. Per sua natura, il ragioniere avrebbe preferito non immischiarsi e continuare a gustare George Eliot o immaginare mentalmente il proseguo della serata. Quello che lo agitava, però, e non gli dava modo di rimanere passivo al di fuori della mischia, non era tanto o solo la cattiveria e prepotenza della giunonica matrona, quanto l’assoluta indifferenza dei numerosi presenti, italiani o stranieri che fossero: “cosa siamo diventati?” si chiese mentalmente lo sgomento ragioniere.
L’uomo si rese conto con orrore che le riserve mentali e l’insofferenza verso gli zingari, rendevano tollerabile agli occhi del pubblico qualsiasi comportamento vessatorio. “E’ così – realizzò spaventato – che dev’essere cominciata la persecuzione degli ebrei, degli zingari e degli omosessuali negli anni ’30: traendo forza dall’ignoranza, dai luoghi comuni e della viltà individuale di tutti noi”.
Alzò un braccio impugnando il libro e gridò con forza: “Signora, lasci stare quella bambina”. Appoggiò la borsa sul posto a sedere e si alzò di scatto: “Ho visto tutto, precisò: la zingara non ha tentato di rubare nulla, ha solo urtato inavvertitamente il ragazzo”. La testimonianza era precisa ed inequivocabile, ed era rivolta a tutti i presenti.
Mentre la grassona rimaneva per un istante paralizzata da tanto ardire, lui aggiunse con tono di minaccia: “e comunque, lasci il braccio di quella povera creatura, lei non ha alcuna autorità per trattenerla con la forza”.
La signora, infine si riprese dalla sorpresa e provò a reagire con veemenza: “come si permette di dirmi cosa debbo fare”. Doveva sentirsi in colpa, perché tentò di giustificarsi: “Questa è una ladra e merita la galera. Li conoscono tutti questi zingari ciarlatani, sempre con la storiella di Sarajevo e intanto pronti a derubarti…”
L’uomo però non intendeva farsi intimidire ed aveva deciso di andare sino in fondo. Fece un passo laterale e bloccò la via d’uscita alla sua interlocutrice: “lasci la minore, o nei pasticci ci finirà lei. La bambina chiedeva l’elemosina e non ha rubato nulla”.
Al ragazzo con la chitarra, il nuovo intervento apparve provvidenziale: “E’ vero”, interloquì concitato: “non ha infilato la mano nel sacchetto, non ha fatto niente”. Si aggiustò la chitarra a tracolla e cominciò ad allontanarsi lungo il vagone. Dagli altri passeggeri solo silenzio.
Miss Giunone sembrava esterrefatta: “questo mi succede a non farmi gli affari miei – commentò acida, ma anche in difficoltà: “comunque io sono sicura, perché io ho visto”. Diede un nuovo strattone alla zingarella e tentò aggirare l’ostacolo e varcare l’uscita, ma il ragioniere era deciso a non farla passare. Proprio allora il segnale di chiusura porte finalmente si attivò.
Dijana, come si dice, colse attimo: esasperata dalla situazione e certo anche spaventata, la ragazzina Sinti finalmente si scosse e reagì decisa. Calcolando la pausa prima della chiusura delle porte, sferrò un calcio sullo stinco destro della cicciona che, gridando sorpresa, fu costretta a lasciare la presa. La rabbia le suggeriva di reagire con violenza, ma non ne ebbe il tempo materiale. Mentre il ragioniere si spostava per farla passare, la piccola Romanì oltrepassò veloce la porta d’uscita un secondo prima che si chiudesse. Un attimo dopo era già sparita lungo il corridoio che porta a viale di Val Fiorita ed al Palazzo della Civiltà del Lavoro.
La matrona, comunque, non ebbe il coraggio di continuare con la filippica. Si era appoggiata su uno dei sedili vuoti, massaggiandosi la gamba destra: “povera me”, borbottava sottovoce senza convinzione. Intanto si guardava intorno alla ricerca di consensi e solidarietà. Ma non ne trovò. L’apatia del pubblico aveva trovato una nuova (e questa volta colpevole) vittima.
Djana raggiunse la fermata del bus in via di Val Fiorita e prese al volo il n. 105 in direzione Laurentina. Non aveva cellulare e non sapeva come comunicare con la sorella. Ma per quel giorno ne aveva abbastanza. Calcolò mentalmente che le sarebbe convenuto andare a piedi al ponte della Magliana, ma preferì allontanarsi per un po’ per paura. Che avrebbe raccontato al padre? Forse sarebbe stata punita perché tornava senza soldi. Ma qualche schiaffo dai maschi della famiglia faceva parte della normalità della sua vita di Sinta.


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