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I VOLONTARI E I BAMBINI, TRA GOLDONI E LE TABELLINE.

by Redazione

Un pomeriggio al Centro Semina, a cura di Paola Springhetti

Entro al centro Semina per parlare con i volontari, e invece vengo subito incastrata a dare una mano ad una ragazza del Bangladesh, che faceva la seconda liceo e che doveva “tradurre” dal veneto antico all’italiano contemporaneo cinque pagine dell’“Arlecchino servitore di due padroni” di Goldoni. Nei pomeriggi in cui Semina è aperto per il supporto scolastico, i volontari non sanno mai esattamente cosa aspettarsi: quanti bambini, di che età, con quali compiti da affrontare. Sanno quindi che devono venire armati di pazienza e disponibilità ed entrambe non mancano.

Siamo a Torpignattara: quasi 50mila abitanti nella periferia Est della capitale, uno dei quartieri più multietnici, che Velio (ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità, poi direttore del Dipartimento di tecnologie e salute, e finalmente in pensione) descrive così: «Questo è un quartiere laboratorio. Abbiamo dal 30 al 40% di immigrati, che è una percentuale alta. Vengono da Paesi diversi. Se fai una passeggiata di sera, senti odori di cucina che non sono quelli italiani, e la sera per strada vedi solo gli immigrati, perché gli italiani sono davanti alla televisione…» «Oppure hanno paura», puntualizza un’altra volontaria, Francesca. «E anche questo è un problema», riprende Velio. Comunque ti sembra di essere all’estero. Il tessuto sociale, da qui a trent’anni, sarà completamente diverso. Anche perché gli italiani di oggi hanno un basso stimolo a migliorare il loro livello culturale: c’è un depauperamento culturale progressivo. Me lo ha fatto notare un sacerdote di una delle parrocchie di questa zona: il problema sono gli italiani, che non studiano e diventano vittime della malavita. Gli immigrati si fanno da fare, si sacrificano, aprono il negozio, si accontentano… Mi piacerebbe trovare la via perché questi diversi gruppi si amalgamino, e credo che il lavoro che stiamo facendo qui sia uno strumento efficace, altrimenti che futuro avranno i nostri nipoti?»

Francesca, una vita da impiegata in una multinazionale, ora in pensione, spiega che ha scelto di fare volontariato qui «per rendermi utile agli altri. Da quando ho smesso di lavorare, volevo comunque dare una mano a chi ne aveva bisogno. Mi sono guardata in giro, per trovare qualche cosa che fosse adatto a me e soprattutto che io fossi in grado di fare. Poi ho incontrato Nessun Luogo Lontano. All’inizio ero un po’ incerta, perché io non sono un’insegnante, ma mi hanno detto: “non ti preoccupare, qui ognuno dà una mano per quello che può e che sa”. Sono venuta e mi sono trovata bene, anche perché non è impegnativo come un lavoro, e quindi mi sento libera, anche se devo garantire un impegno continuativo».

Anna è in pensione ha iniziato a fare volontariato un paio di anni fa. «Sono andata in pensione dopo 47 anni di lavoro – avevo iniziato a lavorare giovanissima – e cercavo qualche cosa che mi tenesse “sveglia”. Insomma, in pensione sì, ma non troppo. Qui mi trovo bene. Ci vuole una pazienza non indifferente, ma molti bambini hanno proprio voglia di imparare, e di sentirsi realmente inseriti nella nostra società. Quindi mi fa piacere per me e per loro».

Iaia invece è l’ultima arrivata: è una dirigente di Poste Italiane e ruba il tempo per Semina a mille altri impegni, ma, spiega, «Mi piace molto stare con questi bambini, anche perché riesco a dialogare con loro».

Velio, invece, grazie a Semina ha dato una svolta alla sua vita. «Il primo giorno che ho iniziato qui, c’era una ragazza, che faceva forse la prima superiore. Abbiamo fatto fisica insieme, se ben ricordo. Ad un certo punto è scattata in piedi ed è corsa verso la sua amica urlando: “ho capito! Ho capito!”. In teoria, dopo essere andato in pensione, avrei potuto continuare a fare ricerca, come volontario. Invece ho preferito chiudere, perché volevo fare altro. Poi ho conosciuto questa associazione, che è diventata il mio fare altro. Faccio volentieri supporto scolastico: cerco di far capire ai ragazzi che la matematica è semplice, e qualche volta ci riesco. Nelle scuole, questa materia viene in genere viene presentata male, ma io sono convinto che, fino alle medie, è più complicato l’italiano. Fare un tema è più difficile che risolvere un problema.»

Non tutto è facile

Nonostante la disponibilità e l’impegno dei volontari, non tutto è facile, nel Centro Semina. Francesca vorrebbe che «i bambini, ma soprattutto le famiglie, fossero più attive, più partecipi. A volte sembrano parcheggiarli qui, senza che gli interessi molto quello che facciamo. Capisco che per loro è difficile, perché spesso anche loro conoscono poco questa realtà in cui vivono. Questa sera, ad esempio, mi sono meravigliata perché la mamma di una bambina sapeva leggere: molte mamme non ne sono in grado».

In realtà, la partecipazione è piuttosto discontinua. Uno dei motivi, secondo Iaia, è «che nei giorni dal lunedì al giovedì non hanno compiti a casa, perché fanno il tempo pieno. Quindi vengono più numerosi al venerdì, quando glieli danno per il fine settimana. Se venissero con più regolarità, si potrebbero utilizzare gli altri giorni per colmare lacune che altrimenti si porteranno sempre dietro, come le tabelline, o per colmare ritardi, come la difficoltà nella lettura. Per questo vorremmo mettere in campo altre iniziative, come un laboratorio teatrale, ad esempio. Cioè far diventare Semina davvero un centro di inclusione, che dia modo ai bambini, ma anche alle famiglie, di arricchirsi in maniera giocosa, non solo come dovere. Quando fai le cose per piacere, tutto cambia.»

Per Francesca pesano anche alcune situazioni familiari. «Non è facile coinvolgerli in attività che vadano oltre i compiti, perché tra i bambini che vengono qui, c’è qualcuno che è di passaggio: la famiglia spera di andare in Inghilterra, o in qualche Paese del Nord dove può avere più possibilità. E c’è anche chi ha famiglie divise: abbiamo una bambina di origine cinese che ha il padre a Genova, la madre qui a Roma, i fratelli in Cina.»

«Ciò nonostante i ragazzi vogliono integrarsi, vogliono sentirsi italiani», aggiunge Anna. «Vorrei solo che non mi chiamassero “maestra”: io spiego loro che non sono una maestra, sono una persona amica, che si siede accanto a loro e che li vuole aiutare.»

Ma che soddisfazioni!

«L’impatto con certi ragazzi mi dà grande soddisfazione. Succede quando riesco a trasmettere un modo di ragionare, che infondo mi viene anche da tanti anni di lavoro. Non mi illudo di fare chissà che, ma sento che con qualche ragazzo posso fare un buon lavoro. Io ho mantenuto un insegnamento all’interno della laurea breve per diventare Tecnici ortopedici all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ma mi diverto di più qua, perché qui ho l’impressione di incidere positivamente, di poter cambiare le cose, mentre lì no: sono già troppo grandi e troppo impostati.»

«Se vedi che il bambino impara, vedi qualcosa che tu hai costruito, i frutti del tuo lavoro», aggiunge Francesca, «e non è detto che sul lavoro succeda, soprattutto se, come ho fatto io per tanti anni, lavori in una grande azienda. E poi i bambini ci aiutano, perché ci fano sentire utili. Venendo qui ho incontrato una bambina, una molto vivace, che stava seduta su una specie di altalena e stava facendo merenda. Mi ha chiamato urlando “ahooo!”. Sembra una cosa stupida, ma mi ha fatto sentire bene: era contenta di vedermi».

Ad Anna fa piacere vedere come «questi bambini si affezionano a noi. E non smetto mai di meravigliarmi per la voglia di imparare che hanno alcuni di loro.»

«Il fatto è, che quando ero giovane, l’idea di insegnare non mi piaceva. Invece adesso insegnare a questi bambini mi piace», racconta Velio, «perché invecchiando ho cominciato a pensare al futuro, che poi è quello che dovrebbe fare un nonno. Un nonno non pensa ai figli, pensa ai nipoti, per questo si proietta nel futuro… Come sarà questa società tra trenta, quarant’anni?».

Per Iaia «I bambini ti fanno sentire utile e ti coinvolgono – mi è capitato anche che mi chiamassero alle dieci di sera per chiedere un consiglio – ma in realtà forse serve più a me che a loro. A volte mi guardo in giro e mi sento un pesce fuor d’acqua: beghe nel palazzo, conflitti sul lavori, discussioni nel sindacato… In genere ognuno pensa a sé e io mi sento addosso una tristezza e una solitudine… Qui sperimento una dimensione diversa.»

Le mamme – soprattutto quelle cinesi, ma non solo loro – ringraziano sempre, più volte, quando vengono a prendere i bambini. E anche i bambini mostrano gratitudine, ed anche umiltà. Fin troppo, secondo Iaia: «Sembra sempre che si scusino, quando arrivano e quando vanno via. Non sono invadenti, sono molto educati. Ma proprio per questo rischiano di restare sempre… dall’altra parte della strada. Io credo che, per cambiare davvero la società, bisogna essere tutti da un lato e tutti dall’altro, insieme, perché altrimenti resteremo sempre tante piccole società che si tollerano, si rispettano, se va bene. Invece il sogno è di essere una sola società.»

È con il ricordo di un fallimento, che Velio conclude la nostra conversazione. «Un bambino, alla fine dell’anno scorso, era venuto poche volte, ma mi sembrava uno sveglio, che capiva. Poi invece è stato bocciato. Ho pensato: “Allora non ho capito niente! Non sono stato in grado di aiutarlo”. Quest’anno non è venuto, è sparito. Forse è partito con la famiglia. Ho ancora rammarico.»

Le storie delle persone sono complicate e i volontari non sono onnipotenti. Ma questo ricordo non è il segno di un fallimento. Semmai, quello di una consapevolezza che rende più attenti alle singole persone, alle singole storie.


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