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Il burqa: libertà negata

by Redazione

Monia Mzoughi, moglie dell’ex imam di Cremona, Trabelsi condannato a dieci anni per terrorismo, è stata rinviata a giudizio per avere indossato più volte il burqa in Tribunale.
L’accusa è di aver violato l’articolo 5 della legge 152 del 1975 che vieta di «prendere parte a pubbliche manifestazioni, svolgentisi in luogo pubblico o aperto al pubblico, facendo uso di caschi protettivi o con il volto in tutto o in parte coperto mediante l’impiego di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona».
Già nel 2005 il suo “abbigliamento” – velo integrale, guanti e scarpe nere – aveva provocato le proteste degli altri genitori dell’asilo Zucchi di Cremona, frequentato dai figli dell’imam.

Ancora una volta il velo, ancora una volta l’Islam.
Il burqa, il niqab, il chador come precetto religioso in nome della libertà religiosa o come emblema islamico in nome della libertà  individuale o ancora messaggio politico o simbolo di oppressione?
La questione è complessa e il confine è labile.
L’equilibrio tra la garanzia della libertà personale e il rispetto nonché la condivisione di regole e di fondanti valori democratici è molto delicato.

Il velo integrale islamico suscita timore e diffidenza nella collettività, acuendo la percezione dell’altro come “diverso”, se non come “criminale” e creando problemi di coesione sociale.
La sicurezza collettiva, un tema sempre più prorompente ed attuale, soprattutto quando si parla di Islam, è presupposto e risultato, al contempo, della libertà nelle sue molteplici manifestazioni così come la tutela di questo diritto crea le basi per una convivenza sicura: non si può disgiungere la sicurezza dalla libertà e viceversa.

Il burqa, però, pone anche un’altra questione.
Si scontrano due diversi concetti: il velo integrale quale libera scelta personale da una parte e il diritto di una donna ad essere tale dall’altra.
Il velo a volte è un’imposizione che si traduce in violenza psicologica, se non fisica, altre volte, in effetti, è frutto di una libera scelta, un voler aggrapparsi ai propri simboli attraverso cui far passare ed affermare la propria identità; soprattutto quando si è lontani dal Paese di origine, può rappresentare l’esigenza di essere accettati nella propria specificità.

Però ci si chiede, come un velo che copre una donna interamente, che la imprigiona, che ne annulla l’identità possa essere un atto spontaneo di volontà?
Il burqa, il niqab, il chador, costrizioni più o meno inculcate, consapevoli, “indotte”, sono simbolo di oppressione, sono sinonimo di umiliazione perché mortificano la donna, la sua personalità, ne violano la sua dignità, i suoi diritti di essere umano. La condannano all’oblio, all’invisibilità.
Oggetto di interpretazioni contrastanti, il velo sembra essere imputabile più a scelte ideologiche che religiose. Espressione di una tradizione e di una mentalità patriarcale e conservatrice – a volte passivamente accettata, se non condivisa, dalle stesse donne – questo indumento si è sempre posto come strumento di controllo sessuale e quindi sociale, in particolare quando si è stati minacciati dalle novità in ambito familiare e nella sfera della sessualità. È la reazione di una cultura che teme l’emancipazione femminile, quale veicolo di progresso e democrazia.

Alcune donne rivendicano il diritto al burqa come libera scelta personale, è vero, ma quanto in esse c’è la reale consapevolezza di ciò che rappresenta? E comunque, se anche questa consapevolezza ci fosse, basterebbe? Sarebbe sufficiente a risolvere il problema immaginare che alcune donne siano consapevolmente favorevoli a questa pratica? No, non basterebbe.
Perché, sia pure con dolore e senza arroganza, occorrerà pure cominciare a dire che esiste un terreno oltre il quale non tutto è opinabile, non tutto è rispetto dell’alterità. Il limite tra ciò che è giusto e ciò che non lo è non dipende da relative e locali “nomenclature di valori”, ma da oggettive scelte che occorre compiere ed affermare. La tradizione può essere cultura e può non esserlo, in quest’ultima ipotesi bisogna rinascere dal passato.

Fourier diceva che il grado di emancipazione della donna è la misura naturale dell’emancipazione generale: «I progressi sociali e i mutamenti del tempo avvengono in ragione del progresso delle donne verso la libertà e la decadenza dell’ordine sociale avviene in ragione della diminuzione della libertà delle donne» – concludendo – «…l’estensione dei diritti delle donne è il principio generale di tutti i progressi sociali».

Maria Carla Intrivici

(19 luglio 2007)


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