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La lotta di Bush all’immigrazione illegale

by Redazione

Nel suo primo discorso alla Nazione sulla politica interna dalla Sala Ovale, Gorge Bush ha illustrato il pacchetto di misure finalizzate al controllo dei confini. Il più “energico” dei provvedimenti previsti consiste nell’utilizzo della Guardia Nazionale nella lotta all’immigrazione illegale. Secondo tale misura verranno dispiegati  circa 6 mila soldati lungo la frontiera con il Messico per fermare i 400 mila clandestini che ogni anno oltrepassano il confine spinti dal “sogno americano”. Si tratta – ha precisato il Presidente Usa – di un impiego temporaneo in attesa dell’utilizzo di nuove e più complesse tecnologie sperimentate in contesto bellico.

Lo schieramento di unità militari lungo i 3.200 km di confine, oltre ad avere sollevato parecchie obiezioni e perplessità, non avrà verosimilmente alcun effetto concreto nel limitare l’invasione delle disperate masse che dal Centro America migrano verso i quattro Stati americani del Sud maggiormente interessati dal fenomeno. Un’analisi del passato ci mostra come le misure repressive non abbiano portato risultati. I provvedimenti restrittivi, che non possono essere attuati al di sotto del fondamentale rispetto dei diritti umani, devono essere inevitabilmente affiancati da una serie di iniziative e politiche di ampio respiro che incidano sulla cause dell’immigrazione clandestina e che siano inoltre di sostegno allo sviluppo dei Paesi di emigrazione. Azioni queste che devono essere realizzate, ovviamente, non in un’ottica assistenziale, ma di cooperazione e reciproco scambio con i Governi interessati, tenendo anche conto – e ciò è essenziale – del frequente utilizzo da parte di questi dell’immigrazione clandestina come ricatto, come strumento di pressione sui sistemi internazionali.

Si tratta, quindi, di un problema di deficit delle politiche americane e occidentali in genere nell’affrontare lo scottante problema dell’immigrazione illegale.

Al di là di una lungimirante o meno analisi della situazione, il messaggio, è, però, chiaro: l’America, terra di grande immigrazione con oltre il 10% della popolazione nato altrove, respinge l’immigrazione, rinuncia ad essere la grande e agognata meta per masse di migranti disperati e oppressi, per difendere la propria identità nazionale e affermare il controllo.

Probabilmente è anche un tentativo da parte di Bush, crollato ormai ad un 29% di sostegno, di recuperare consensi, in particolar modo con riferimento alla fazione più conservatrice e questo soprattutto in vista delle elezioni di Camera e Senato di novembre. Ma, presumibilmente, è anche un modo per mediare tra le divergenti posizioni di questi due organi schierati su fronti opposti in materia di immigrazione. Al testo di riforma varato dalla Camera lo scorso dicembre, sostanzialmente restrittivo e repressivo, si contrappone, infatti, una proposta di riforma del Senato più morbida tesa a conciliare un programma di regolarizzazione per gli stranieri che si trovano negli Stati Uniti da oltre 5 anni con provvedimenti di maggiore rigore nei controlli ai confini, prevedendo, inoltre, il c.d. guest worker program, tanto raccomandato dal Presidente americano, secondo cui i lavoratori stranieri potranno entrare in America secondo le esigenze dell’industria.

Negli Stati Uniti vivono 12 milioni immigrati illegali, per lo più ispanici, che rappresentano il 5% della forza lavoro. La loro espulsione in toto, caldeggiata dai repubblicani alla Camera, non è sostenibile – situazione che d’altro canto paralizzerebbe la vita del continente, come dimostrato dalle recenti manifestazioni – ma è altresì evidente che neanche un Paese come l’America può assorbire migliaia di clandestini senza una governo razionale e articolato del fenomeno.

Maria Carla Intrivici

(19 maggio 2006)


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