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L’accidentato iter della riforma sulla cittadinanza

by Redazione

Il 12 gennaio scorso è tornato in Commissione Affari Costituzionali il testo di riforma della legge in materia di cittadinanza. A deciderlo è stata l’Assemblea di Montecitorio con 32 voti di maggioranza: un’ulteriore tappa di un percorso che si prefigura lungo e accidentato.

In Italia la concessione e il riconoscimento della cittadinanza italiana sono disciplinati dalla legge n. 91 del 1992. Tale normativa si basa sul principio dello ius sanguinis secondo il quale il figlio nato da madre o da padre italiano è automaticamente italiano.
L’acquisto automatico della cittadinanza per nascita sul territorio, lo ius soli, è previsto solo nei casi in cui i genitori siano ignoti o apolidi o non trasmettano la propria cittadinanza al figlio secondo la legge dello Stato al quale essi appartengono: lo ius soli è, quindi, nell’attuale legge, un modo di acquisto della cittadinanza residuale. Il minore nato in Italia da genitori stranieri può, infatti, chiedere la cittadinanza solo al raggiungimento del diciottesimo anno d’età e se vi abbia risieduto legalmente e ininterrottamente; perde definitivamente questo diritto se non lo esercita nei dodici mesi successivi. La cittadinanza, inoltre, può essere concessa, per naturalizzazione, allo straniero che risiede legalmente da almeno 10 anni nel territorio italiano e in presenza di determinati requisiti.

Nel corso dell’attuale legislatura sono state presentate diverse proposte di legge di modifica della normativa in questione, proposte ampiamente dibattute in Commissione Affari Costituzionali che ha, poi, adottato il testo “base” di riforma della relatrice l’on. Isabella Bertolini.
Si tratta di un testo di 5 articoli che suscita non poche perplessità in quanto più restrittivo della vigente legislazione in materia, ma che soprattutto ignora la questione delle seconde generazioni.
Secondo il nuovo provvedimento, gli anni necessari per l’acquisizione della cittadinanza italiana, rimangono 10, ma all’ottenimento del nuovo status si potrà giungere solo dopo il «previo svolgimento del percorso di cittadinanza», fatto di corsi di conoscenza della storia e della cultura italiana, di un «effettivo grado di integrazione sociale» e del rispetto delle leggi e dei valori costituzionali, anche in ambito familiare. Pur nella condivisione del concetto di cittadinanza come percorso di conoscenza e adesione al bagaglio culturale e normativo del nostro Paese, sono evidenti dei limiti. È, infatti, manifesta una poco chiara definizione dei criteri di accesso alla cittadinanza, in particolare dei parametri di misurazione dell’effettivo grado di integrazione sociale.
Con riferimento ai figli di stranieri nati in Italia, inoltre, agli anni di residenza legale e continuativa sul territorio nazionale fino al raggiungimento della maggiore età, si chiede anche che abbiano frequentato con «profitto scuole riconosciute dallo Stato italiano almeno sino all’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione».

Il testo è palesemente peggiorativo, in quanto rende più complesso l’accesso alla cittadinanza e in particolar modo perché esclude un ampliamento della normativa nella direzione dello ius soli.
L’Italia è il Paese anche dei nuovi cittadini ed è imprescindibile creare percorsi di promozione e di valorizzazione dell’appartenenza fisica e sociale alla comunità di cui si è parte; e questo lo si può fare attraverso il riconoscimento dei diritti di partecipazione e rappresentanza e la predisposizione di meccanismi di accesso alla cittadinanza più semplici e inclusi.
Occorre una revisione della legislazione in materia di cittadinanza, ma deve essere finalizzata a rendere più flessibile il sistema di acquisto della cittadinanza italiana secondo il principio dello ius soli, a ridurre il periodo di tempo necessario per l’acquisizione e a rendere maggiormente espliciti e ben definiti i requisiti per la naturalizzazione.

Maria Carla Intrivici

22 gennaio 2010


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