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Buon anno, Compagni!

by Redazione

Di Fabrizio Molina

Salgo ogni tanto in soffitta e mi metto a rovistare tra i ricordi. Ci trovo, come è ovvio, di tutto: anticaglie, vecchi libri, foto che guardo sempre malvolentieri e anche tanta roba che uno dovrebbe proprio buttare ma non trova mai il tempo per farlo.
Ci trovo soprattutto i ricordi, naturalmente. I ricordi sono come il colesterolo, c’è quello buono e quello cattivo; ma sono anche come il vino buono, un po’ fa bene, se si esagera fa perdere lucidità e senno. Stavolta, dentro una vecchia cassa militare che sembra quella di un vecchio film di Don Camillo, ci ho trovato un po’ di lettere di quando ero militare a Macomer, quella parte della Sardegna che uno come Briatore regalerebbe al Portogallo, perché lui preferisce quella parte dell’ isola scosciata e oscena dove aveva aperto e poi chiuso il suo locale per cannibali sociali.
Ci ho trovato qualche lettera della mia ragazza di allora, di cui ho pochi ricordi ma rammento che era carina e a suo modo sensuale, ma aveva problemi con la consecutio e questo mi procurava un vistoso calo dell’ appetito sessuale. Poi ho trovato una lettera di Carlo ricevuta il giorno di Santo Stefan e che avevo assolutamente rimosso dai miei ricordi. Un sergente maggiore che fu dimesso a quel tempo dall’ esercito con una scusa. Gli avrebbero perdonato tutto: che avesse rubato nel magazzino, fatto del nonnismo con le reclute, persino che avesse insidiato la giovane moglie del comandante. Tutto, ma era comunista e questo proprio non poteva passare.
Mi scriveva del suo paese nella bassa Garfagnana, di come la gente lì vivesse con difficoltà, di come gli echi del craxismo stessero già avvelenando i pozzi di acqua potabile. Poi però, nell’ ultima parte della lettera breve e senza smancerie, c’era un vero e proprio un inno alla speranza, una incitazione ad essere forti e a guardare al futuro senza paura. Lui che, lo sapemmo poco dopo, era stato abbandonato dalla moglie dopo essere stato cacciato dall’ esercito e viveva a stento facendo il muratore a giornata.
Mi salutava e salutava gli amici con un “ Buon Anno, Compagni!” Tutto con la maiuscola. Quel saluto ci giunse non come il grido di battaglia di un Che Guevara di campagna, ma come l’ unico modo che aveva per farci arrivare tutto il calore e l’ amicizia di cui era capace.
Da allora ne sono successe tante e più di tutto mi ha segnato il fatto che abbiamo perso quella capacità che allora c’era di saper stare uniti, di saperci sentire comunità, quell’ orgoglio fiero che sa scaldare il cuore. Avevamo mille difetti, ma facevamo di tutto per sentirci dalla parte giusta e di restarci e anche un “ Buon Anno, Compagni!” ci permetteva di non avere freddo dentro.
Sono il primo a credere che il passato è passato ed è stupido rimpiangerlo: anche perché fu pieno di errori. So anche che c’era molta infanzia in quel modo di emozionarci ma adesso che siamo grandi, siamo più felici almeno qualche volta?
Io auguro a ciascuno di voi un anno di barlumi, di aurore e di cocciuta speranza. Vi auguro la ripresa economica ma anche quella dell’ anima. Vi auguro un nuovo anno che vi dia legna buona con cui riaccendere il vostro fuoco interno; per non essere obbligati a gioire per la massima conquista civile dell’ ultimo ventennio, quella di poter dare due cognomi ai figli.
Io non ho nulla contro il doppio cognome, né contro la legalizzazione dell’ erba se serve a limitare il narcotraffico; dico solo che è legna verde e di platano che anche se si accende brucia poco e non scalda. A noi serve legna asciutta e di noce, per un fuoco che non divampi, che non ustioni, ma che illumini, che riscaldi, che dia vita.
Così stanno le cose. Buon Anno, Compagni! Da Carlo e da me.

Fabrizio Molina


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