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Dormendo sulla collina

by Redazione

In fila per uno, impettiti, silenziosi, professionali. Sembrano un picchetto d’ onore di una città dal nome e dalla collocazione geografica misteriosi e arcani, come quelle citate nella Bibbia. Gerico, forse. O forse Ebla o Sichem, oppure Nippur.

Il fatto che non abbiano divise d’ ordinanza con mostrine e alamari ma solo un telo di plastica verde o nera che li inguaina dalla testa ai piedi, non toglie nulla alla loro apparenza marziale che incute soggezione. Sembrano un drappello di ufficiali in attesa che arrivi in ispezione il capo di stato maggiore. Né si perde l’ effetto perché uno strano gioco di prospettiva li pone in orizzontale invece che in verticale. Sono belli e fieri e incredibilmente proiettati verso il futuro.

Appaiono così i morti di Lampedusa, a chiunque non voglia guardarli con l’ ipocrisia vigliacca e ciarliera che gioca a chi spara l’ aggettivo più duro. Dure le parole, irrilevanti i fatti. Piangeteli se davvero ne siete capaci, ma state zitti, in nome di Dio!

Non loro ma noi, dormiamo, dormiamo, dormiamo sulla collina. Noi con i ventenni che non finiscono mai ma forse stavolta sì; noi con i compiti a casa, con la meritocrazia e i corridoi europei, con la borsa di Tokio e quella di New York, noi che per uscire dai casini e farci uscire l’ Europa, dobbiamo affidarci a quattro o cinque democristiani. Loro, il picchetto di Lampedusa, rappresenta gente che ha per sé il futuro, noi solo ancora un po’ di passato. Non loro, ma noi, dormiamo sulla collina. E dormendo ci capita di sognare.

Stanotte io, dormendo sulla collina, ho sognato di essere entrato, in un qualche posto del Maghreb, una specie di città dei ragazzi, credo. Dentro c’ erano casette, luoghi comuni, un cinema, campi da calcio e, soprattutto, un mare di giovani e ragazzini. Ognuno intento a fare qualcosa e a farla seriamente. Operosi e svelti come chi sappia di doversi dare una mossa. Camminavo per i vialetti, entravo nelle sale, nei laboratori, nelle cucine, nelle officine. Un mare di operoso mistero, almeno per me. Doveva essere quasi mattina, il sogno si stava facendo meno nitido e chiaro. Ricordo di aver fermato una ragazza, non arrivava a vent’ anni, per chiedergli che cosa stessero preparando. Non ricordo il suo nome ma non ne dimenticherò mai più il sorriso. “ Dobbiamo sbrigarci, essere pronti a intervenire”. “ Sbrigarci perché? Essere pronti a cosa?” Le ho chiesto. “ Ma come non lo sai? Passato il mare grosso, arriveranno dei barconi, con migliaia di disperati. Impauriti, stanchi, affamati. Fuggono dalla povertà e dal bisogno. Vengono da Roma, da Berlino, da Parigi e non possiamo certo ributtarli in mare. Dobbiamo essere pronti ad accoglierli. Così, tanto tempo fa, hanno fatto loro con i nostri nonni”.

Fabrizio Molina


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