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Fare di più e fare meglio nella governance di un fenomeno epocale

by Redazione

A pochi giorni dalla commozione suscitata dal corpo del piccolo Aylan abbandonato sulla spiaggia di Bodrum, molti governi ritornano all’opzione pugno di ferro contro i migranti. Ma non è con i muri che si governerà la più grande emergenza umanitaria dell’era moderna.

Di Giuseppe Casucci

Il meccanismo mediatico si sa è quello dell’usa e getta. Qualsiasi avvenimento drammatico è capace di suscitare una grande emozione nello spazio TG di un mattino: il giorno dopo però è già storia e si cercano nuove emozioni, nuovi drammi da gettare nell’arena del pubblico televisivo. Quello che accade però ogni giorno  nell’esteso teatro che spazia dal Medio Oriente, all’Africa, all’Est Europa fino alla UE, non dura solo la puntata di un programma di attualità; non si può mettere da parte come qualcosa di obsoleto: si tratta di un dramma che si rinnova giorno per giorno, alimentato dalle guerre che devastano Siria, Iraq, Afghanistan, Libia e Nigeria ed altri Paesi. Un tragico spettacolo destinato purtroppo a durare ancora per molto: almeno fino a quando non si arriverà ad una soluzione politica dei conflitti.

La guerra civile infuria, alimentata dal traffico d’armi e dal gioco delle potenze mondiali. In Siria 300 mila morti dall’inizio della guerra; decine di migliaia i caduti in Iraq Yemen ed Afghanistan. Nuovi fronti si aprono non solo in Libia, ma anche nel più popoloso Paese Africano: la Nigeria. Democratico secondo i nostri parametri, eppure scosso da episodi di guerriglia e terrore targati Boko Haram. Tutto questo causa milioni di sfollati ed esiliati: gente come noi che fugge dal rischio di essere uccisi dalle fazioni armate; che abbandona le proprie case, il lavoro, una vita non più normale e rischia la propria incolumità (e a volte la vita) per raggiungere l’Europa. Ci meravigliamo ancora per la determinazione di questi disperati? Ci chiediamo ancora come mai rischiano di annegare nelle perigliose traversate marittime mettendosi nelle mani di organizzazioni criminali di scafisti? E chi scappa dalla miseria e da una morte per stenti, è davvero diverso da chi scappa dalla guerra? Un esempio pratico: la Nigeria ha rapporti diplomatici con i paesi Europei ed è tra quelli che utilizzano i permessi stagionali per venire a lavorare nei campi a Foggia o nell’astigiano. Dunque i suoi cittadini non hanno legalmente diritto d’asilo. Però è anche il paese delle fughe di massa dalle campagne per le violenze del terrorismo. Come dobbiamo considerare allora chi fugge dalla Nigeria, attraversa l’inferno della Libia e si imbarca in gommoni pericolanti per attraversare il mediterraneo? La marea umana che ogni giorno si scontra con i reticolati al confine tra Serbia ed Ungheria non si scoraggerà se il premier Merkel cambia di opinione e fa la voce grossa: loro hanno ben poco da perdere e cercheranno nuove rotte se una viene interrotta da un muro. Tra queste rotte c’è anche quella che porta a Gorizia ed al Friuli. Da un momento all’altro potremmo trovarci a dover operare su due fronti: uno dal Mar Mediterraneo e un altro dai Balcani. Cosa fare allora? Il sindacato al Governo può dare solo suggerimenti, cosa che ha fatto ripetutamente: un primo punto è quello di insistere sulla riforma del regolamento di Dublino. Oggi un aggiramento di quella norma sta avvenendo di fatto, si tratta però di ripensare nel suo complesso la politica di asilo nella UE; un altro dovrebbe essere quello di istituire corridoi umanitari dai Paesi di transito, anche per evitare che i profughi debbano rivolgersi agli scafisti. Un terzo, naturalmente, è quello di continuare a salvare vite umane nel Mare Nostrum. Ma ce n’è uno che consideriamo altrettanto importante: quello di non imbarcarsi nella difficile avventura dei rimpatri. Sarebbe come voler svuotare l’oceano con un secchiello e si spingerebbe questa gente a non farsi identificare. Governare il fenomeno significa organizzare l’accoglienza di chi cerca rifugio, e possibilmente un programma di integrazione per loro e le loro famiglie. La logica dell’emergenza abbiamo visto non funziona e fa solo l’interesse degli affaristi di turno.

Non si può considerare accoglienza e – tantomeno – integrazione quanto accade oggi. Sono sotto gli occhi di tutti le migliaia di stranieri costretti a bivaccare per strada, negli androni degli uffici ferroviari, o dormire nei sottopassaggi in attesa di sapere se potranno continuare il loro viaggio verso il Nord Europa. Soccorsi solo inadeguatamente dalle associazioni di volontariato.

Ieri i capi di stato europei hanno deciso la condivisione di 120 mila rifugiati, con l’opposizione di parte dell’Est Europa. E’ qualcosa, ma non sufficiente se – come dice l’Ocse – la cifra di arrivi nel 2015 supererà quota un milione nella UE.

E’ una sfida inedita, troppo grande per essere relegata agli scarsi mezzi delle pubbliche autorità. Una sfida epocale che chiama tutti noi alla responsabilità solidale attiva.

Ed in questo senso anche il sindacato può fare qualcosa di concreto, forte dei suoi milioni di iscritti: quello di aiutare a costruire la solidarietà e l’accoglienza, attraverso raccolta di fondi e beni da destinare ai rifugiati ed alle associazioni attivamente impegnate a soccorrerli. Sappiamo che è difficile fare inclusione degna di questo nome a tanta gente. Le autorità preposte sono sempre più in difficoltà e la mancanza di governo del fenomeno suscita spesso espressioni pubbliche di insofferenza. Forse un impegno diretto del sindacato e la sua potenzialità di forza solidale potrebbe fare la differenza.


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