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Il sociale cancellato e da ricreare creando comunità

by Redazione

Vincenzo Pira – Armadilla Onlus
Viviamo in un’epoca in cui prevale la paura. Una generazione che vive “L’epoca delle passioni tristi” che Miguel Benasayag e Gérard Schmit, hanno ben descritto nel libro che ha proprio questo titolo.
Paura alimentata dalla precarietà della maggior parte della popolazione, dall’impoverimento di chi vive del proprio lavoro e dalla cancellazione delle reti sociali, comunitarie e familiari che supplivano alle carenze delle politiche sociali nei confronti dei gruppi sociali più vulnerabili: anziani, malati, portatori di handicap, indigenti.
La realtà sociale italiana, viene, da alcuni anni, percepita in un’irresistibile discesa al peggio con una progressiva perdita di riferimenti etici e valori condivisi.
Atti e manifestazioni di razzismo si manifestano senza timore in una condizione in cui il controllo sociale è debole se non inesistente. Atti di violenza nelle strade e negli stadi, sono ormai un’abitudine; fa notizia la settimana in cui non accadono. Le statistiche, poco considerate e quasi nascoste dai mezzi di comunicazione sociale ci parlano di un diffuso uso di cocaina e di altre droghe in quantità mai viste nel passato. La violenza dentro le mura domestiche ha raggiunto livelli di emergenza sociale.
La sfiducia nelle istituzioni pubbliche, l’aumento della precarietà, la perdita del valore d’acquisto di salari e pensioni, esaspera l’individualismo e la richiesta di certezze. Si auspica l’arrivo di leader decisionisti, carismatici, che prendano decisioni. Non importa se queste risolvono strutturalmente i problemi. E’ sufficiente avere la percezione che non si viva nell’anarchia o in balia delle lungaggini burocratiche o di veti posti da interessi spesso contrapposti.
Non vi è più un’attenzione al bene comune inteso come interessi condivisi da tutti i cittadini di una comunità, di un territorio, di una nazione. Dell’umanità.
Prevale, oggi, una cultura individualistica, molto spesso egoista, che porta ad esasperare gli interessi particolari di individui, gruppi di potere, togliendo spazio alle possibilità di aggregazione sociale e comunitaria, aspettando, il più delle volte inutilmente, risposte ai bisogni di sicurezza e di presidio del territorio dagli apparati statali deboli e inefficaci.
Questo è successo in Italia negli ultimi anni indebolendo la rappresentanza democratica e la partecipazione dei cittadini. La crisi della politica accentua la chiusura nella propria casa e aumenta la diffidenza nei confronti del resto del mondo (dal proprio vicino di casa all’immigrato invasore) visto come minaccia ai propri diritti e non come opportunità ci confronto e di crescita culturale comune.
Vivere accanto e non riuscire a relazionarsi. Questa è la situazione della convivenza collettiva nelle nostre città, che porta a un indebolimento dei lacci comunitari e a una regressione civile.
Condizione aggravata per chi vive nelle periferie urbane dove domina, a livello di aggregazione sociale e culturale, un immenso deserto.
Prevale in tanti di noi il fatalismo del “speriamo che me la cavo”. Cerchiamo una salvezza solitaria che non trova più luoghi, occasioni e meccanismi di integrazione sociale.
Alcuni spazi sociali che prima erano considerati “per tutti” sono oggi spazi privati, di parte, in cui non si riconosce un’intera comunità. La piazza, l’osteria, il circolo la parrocchia non sono più luoghi comuni in cui si crea relazione tra le diverse entità sociali che condividono un territorio.
Vi è un vuoto che né lo stato, né il mercato né l’associazionismo riescono a coprire.
Per reagire a tale stato di cose non basta certo il richiamo a condizioni (mitiche) rievocate in alcune pubblicità (il ritorno a una natura incontaminata, a una società rurale che produce direttamente ciò che si ha bisogno, al “mulino bianco” dove tutto è pulito e immacolato, al successo personale attraverso le scorciatoie della carriera facile…).
Occorre inventarsi nuovi spazi e nuovi meccanismi di relazione sociale e comunitaria, inediti e adatti al tempo che viviamo nel XXI° secolo.
E’ necessario diffidare e non credere che la realtà sia quella che comunica il potere televisivo e dei mezzi di comunicazione di massa. Si creano emergenze strumentali che durano l’arco di una campagna elettorale. Poi, come un fiume carsico, scompaiono, per riapparire, se occorre, in vista di prossime elezioni.
Si cerca il consenso difendendo ed esaltando le identità particolari a detrimento della relazione, tra persone, tra popoli, nazioni e stati. L’altro è il diverso, è il pericolo, è il portatore di male, il concorrente che mi impedisce di crescere nel mio benessere. È un nemico da cui diffidare e da cui occorre difendersi (si tratti di un immigrato o del condomino della porta accanto, del paese europeo vicino o del continente africano).
I partiti politici fanno fatica a svolgere un ruolo nazionale e di “costruttori di storia”. È più semplice difendere interessi corporativi (a livello sociale e territoriale) che assumersi il compito di governare affrontando adeguatamente le nuove sfide che il locale e il globale impongono. E per questo non vengono considerati come spazi di appartenenza comunitaria ma solo come strumenti per garantire privilegi.
Se non riusciamo a costruire processi di storia collettiva non possiamo poi sorprenderci se non abbiamo classi dirigenti capaci di richiamare i singoli a relazionarsi fra loro e trovare interessi comuni collettivi e un consenso su valori, sia storici sia per il futuro, condivisi. Memoria e programmazione, sia nel politico sia nel sociale.
Non credere che esista una persona a cui si possa delegare la soluzione dei problemi.
Occorre uscire dal qui ed ora per ricostruire collegamenti e relazioni sociali nuove, partendo dal basso, dalle piccole minute relazioni e strutture della vita quotidiana. Occorre che insieme troviamo la soluzione per i problemi sentiti nei quartieri in cui viviamo collegandoli a quelli più globali della città e del paese.
Armarci di santa pazienza per trovare come relazionare il nostro locale con il globale. Come trovare risposte concrete ai nostri piccoli problemi contribuendo alla soluzione di quelli planetari.
E avere spazi in cui si possa rammendare non solo la nostra città ma anche l’intero pianeta, coniugando il nostro radicamento locale con la rete globale da cui dipende.
Solo così potremo superare la paura e costruire nuove speranze.


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