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“La cultura dell’incontro. La complessa accoglienza dello straniero”: un bel convegno fa il punto sulle idee che circolano

by Redazione

Sono stati molti gli spunti interessanti nelle relazioni previste sabato 24 a Roma in: “La cultura dell’incontro. La complessa accoglienza dello straniero”, organizzato dal Centro studi Emigrazione – SIMI –Ufficio Comunicazione Scalabriniani – Libreria Paoline
In “Provocazioni per oggi dal mondo di ieri”, il prof.  Innocenzo Cardellini, docente e studioso di migrazioni fin dai tempi dell’antica Scrittura, appare evidente come la paura dell’altro, dello straniero, dello sconosciuto, di colui che parla un’altra lingua e appare anche diverso fisicamente e nei suoi modi di comportarsi, non è una questione dell’attualità. Se nei fatti, nella sostanza, nella pratica di vita di 5000 anni fa veniva vissuta con una certa ragionevolezza, la lettura, il racconto, l’ideologia dominante vedeva invece – al pari di oggi – l’altro come un nemico di cui diffidare. Ma da allora i popoli si sono sempre dati da fare per far fronte e convivere con le naturali migrazioni/immigrazioni che non sono certo un “fenomeno” solo di oggi.
Oggi, però c’è un dato profondamente diverso, e lo ha spiegato in “Comunicazione e manipolazione. Ostacoli all’incontro”, la prof. Arianna Montanari, ha spiegato che considerare gli altri attraverso i nostri stereotipi, i cliché è naturale. Per semplicità, paura e comodità. Ma anche perché la propria identità si costruisce per contrapposizioni (la figura del nemico, del diverso, dell’altro) che ci serve per affermare la nostra. E accogliere, allora, potrebbe significare mettere in crisi la propria identità e il proprio gruppo di appartenenza. Un rischio che difficilmente si può correre senza mettere a repentaglio la propria appartenenza al gruppo.
Ma le identità si costruiscono – spiega la Montanari – anche grazie ad una narrazione finta, artefatta, studiata. Quindi poco verosimile. E allora chi si occupa di questi temi (vedi certe fiction oggi positive, più ancora di tante informazione giornalistica) forse dovrebbe essere capace anche di costruire un immaginario positivo del fenomeno immigratorio come – all’opposto – fanno i costruttori di scenari negativi.
Ad esempio quello che si può costruire e ha rappresentato in pochi minuti Paola Di Lazzaro, (esperta e consulente dell’Unar-Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) attraverso uno spot che parla del “Il muro della disuguaglianza “razziale”: quando lo straniero è un italiano”. Ossia quel milione o quasi di giovani nati e cresciuti nel nostro Paese ma che nonostante abbiano compiuto 18 anni non riesce ad avere la cittadinanza e i documenti necessari per studiare o lavorare. Sono ancora vittime di una normativa vecchia e impraticabile che impone il Permesso di soggiorno anche a chi parla, pensa e vorrebbe essere italiano a tutti gli effetti. Cambieranno le norme? Le proposte di legge presenti in Parlamento (bene 20) riusciranno ad approdare a qualcosa?
Interessante anche l’aspetto sottolineato dalla Di Lazzaro di quanto può fare dell’ironia un prezioso strumento per scardinare pregiudizi e stereotipi. Un sondaggio nelle scuole ne è la prova.
Infine c’è una proposta che l’autore, il senatore Luigi Manconi, tiene a descrivere come “per nulla provocatoria”: è quella presentata con Valentina Brinis coautrice del libro “Accogliamoli tutti”. No, non è un’utopia. Anzi. Il presidente dell’associazione A Buon Diritto  parte da un principio durissimo. Praticamente sostiene che la “voluta smemoratezza circa la nostra storia di ex-migranti – in un secolo sono partiti circa 35 milioni di italiani, con tragedia durissime dimenticate – è perché oggi tolleriamo quei morti è purtroppo perché, nel fondo della nostra coscienza, pensiamo che quelle persone ‘siano meno persone di noi’. Se le sentissimo come uguali non potremmo tollerare la loro morte quotidiana. E’ un meccanismo di ‘gerarchizzazione’ robusto che sta dentro la nostra individuale soggettività. È qualcosa che richiama l’antropologia e la storia della cultura. I processi di civilizzazione di cui siamo artefici e protagonisti, quel meccanismo di gerarchizzazione non lo hanno ancora annullato. Sono come dei mezzi -uomini, degli uomini che comunque sono titolari di una diversità che consente la svalutazione dei loro diritti”. Ecco, il punto è questo.
E’ in gioco un concetto fondamentale che attraversa tutte le culture umanistiche di origine religioso e laica. Che è la categoria della dignità e del diritto che la rappresenta. Per questo Manconi definisce aberrante la parola ‘clandestino’, perché individua una persona che non ha diritti, da prendere e arrestare, perché a prescindere dalla sua personale situazione (quasi sempre drammatica e di povertà, quindi degna di maggiore non minore tutela) è invece una persona che “attenta al mio patrimonio o alla mia persona”. I terroristi, un tempo, erano clandestini e perciò pericolosi. Clandestino nella dimensione di uno Stato è il nemico che non è titolare di diritti. Chiamiamo clandestini coloro che ci prepariamo a percepire come nemici e non titolare di diritti. E i Cie sono luoghi di alienazione, modello simile a quello dove vengono reclusi i terroristi.
Qualunque sia la motivazione che ci induca ad agire, civile religiosa politica, questo scrivere, agire e analizzate, deve avvenire intorno alla questione dei diritti. È la catastrofe dei diritti che provoca il disastro della situazione di condizioni di vita impraticabili.
Particolare non secondario, quello in più evidenziato dalla Brinis è anche che le buone prassi, le politiche attive positive e che producono risultati (che ci sono nel nostro territorio, e sono anche tante) non vengano diffuse. Le buone prassi non lasciano traccia e si disperdono depauperando diverse energie positive. È uno spreco e si cerca invece sempre di ripartire da zero per mettere a punto nuove esperienze.
Precisa, infine, l’accusa lanciata da Manconi a fine dibattito. “Si sente spesso dire da noi: L’Europa faccia la sua parte. Ed è vero. Ma l’Italia non è credibile intanto perché non fa la propria, come sarebbe giusto che fosse (vedi lo scandalo umanitario dei Cie) e poi perché i numeri europei ci dicono che Francia, Germania e persino Spagna fanno molto, ma molto di più di noi nell’accogliere – secondo i principi europei – rifugiati e aventi diritto.
Solo adeguandoci a norme e standard europei potremmo sederci al tavolo europeo con una certa speranza di essere rispettati. Magari per avanzare quella ragionevole proposta europea, che Manconi va sostenendo da tempo: ossia anticipare geograficamente, politicamente, economicamente e giuridicamente, la richiesta di protezione per coloro che fuggono dai paesi dell’Africa dove sono in corso conflitti e persecuzioni di qualunque natura. Cioè costruire e rendere operativi i Presidi sulle sponde di alcuni Paesi del Nord-Africa con la gestione della rete diplomatica dei paesi europei, delle strutture dell’ONU,e delle grandi organizzazioni umanitarie religiose e laiche, per operare attivamente Lì dove si addensano i flussi immigratori, lì dove avanzano le richieste e si verificano per poterle poi distribuire adeguatamente tra i diversi Paesi d’Europa.
Lì dove partono quei viaggi della speranza, che spesso, troppo spesso, si concludono drammaticamente nella tomba del Mare Nostrum.

Vittorio Sammarco


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