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La rappresentazione del fenomeno migratorio

by Redazione

Riceviamo e pubblichiamo:

“Clandestini”, “irregolari”, “extracomunitari”: l’elenco dei termini con cui vengono spesso indicati gli immigrati potrebbe continuare. Ma cosa vuol dire utilizzare una parola piuttosto che un’altra? Quali sono le ragioni dell’utilizzo di un certo tipo di linguaggio, e soprattutto quali sono le conseguenze? In questo caso, come in ogni altro.
Una premessa importante consiste nel dire che il linguaggio non è mai solo un mezzo per comunicare, ma rispecchia e contribuisce a creare un universo di riferimenti simbolici. Esso appartiene sempre ad un particolare contesto spazio-temporale, nasce in un dato mondo di cui è fortemente rappresentativo. Basta pensare al fatto che non tutti i termini di una lingua sono traducibili in un’altra. Alcune parole nascono ed hanno senso solo in determinati contesti.
La realtà, quindi, esiste sempre in relazione al soggetto che le attribuisce un senso, è la risultante di una costruzione, di una mediazione simbolica. Il linguaggio ha un ruolo fondamentale in questo processo. La lingua in particolare rappresenta l’elemento identitario più importante per un gruppo sociale. Attraverso di essa si ha la trasmissione di un intero mondo di valori. Ragion per cui quando si vuole distruggere un popolo si comincia dalla distruzione della sua lingua.

Cosa accade allora quando mondi diversi si incontrano? Quale grande sfida spetta alle società multiculturali, laddove multiculturali non può che significare dai diversi modi di guardare la realtà?
Ciò che prima di tutto colpisce dell’immigrato è la diversità, quasi mai il comune sentire. La sua diversità si esprime prima attraverso i suoi tratti esteriori, il colore della pelle, i tratti somatici, il suo modo di fare, ma poi soprattutto attraverso il suo modo di parlare, la sua inflessione. Ma come è percepita e interpretata la sua “diversità”? Se da un lato la diversità nell’esprimersi è portatrice di diverse categorie concettuali, di una diversa “cultura”, qual è invece il modo di rivolgersi all’altro da parte della società “ospitante”? Che tipo di linguaggio si utilizza e attraverso quali mezzi? Quali nuove categorie si creano?
Una ricerca della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma “Sapienza” (http://www.uni.net/sos.razzismo/Sito/Ricerca_Imm.pdf) è molto interessante in questo senso. Dimostra come il linguaggio utilizzato dai media italiani possa portare ad una determinata visione dell’immigrazione. Lo spazio dato, il modo dell’esposizione e soprattutto i reati di cui si parla, facilitano una visione  piuttosto che un’altra. Un esempio eclatante in questo senso è l’uso che si fa della parola “clandestino”. Secondo questa ricerca è la parola più utilizzata nei telegiornali e anche quella più tematizzata, infatti, viene quasi sempre utilizzata come equivalente di “criminale” già prima e comunque al di là dell’introduzione del reato di clandestinità. La stessa cosa accade quasi sempre con gli arrivi attraverso gli sbarchi. Si parla di clandestini laddove invece la maggior parte delle persone che arrivano in questo modo sono dei richiedenti asilo.
È chiaro che utilizzare delle parole in modo così forte e impreciso crea una visione distorta del fenomeno migratorio. Il passo alla creazione di stereotipi è breve: clandestino=delinquente. Inoltre quando si tratta di alcuni tipi di reato e soprattutto di fatti particolarmente brutali quali le violenze sessuali, le persone straniere compaiono nell’informazione più frequentemente rispetto agli italiani responsabili degli stessi fatti. È da notare, poi, come la nazionalità o “etnia” dei protagonisti sia l’informazione più evidenziata nei titoli e come connoti pesantemente le notizie.
Solo in una percentuale davvero bassa l’immigrazione viene affrontata dai media nelle altre possibili dimensioni al di fuori della sicurezza, quali possono essere quella economica, quella relativa all’integrazione, all’accoglienza, al confronto culturale.

La diversità viene così racchiusa in etichette di facile consumo e di enorme generalizzazione, laddove la generalizzazione non è possibile. Così come ci insegna Hannah Arendt, «la diversità umana (…) è una caratteristica della “condizione umana” senza la quale la stessa parola “umanità” si svuoterebbe di ogni significato». Non voler riconoscere la diversità equivale a non voler riconoscere l’essere umano in quanto tale.
Ma attenzione, conoscere, scoprire l’altro non vuol dire mai rinunciare a se stessi. È vero il contrario. Così come un individuo da solo non può sviluppare tutte le sue potenzialità intellettive, una cultura chiusa in se stessa è destinata a morire. Essa non può sopravvivere senza stimoli esterni, senza interazioni, semplicemente perché essa è viva e si evolve, cambia nel tempo, è un prodotto storico.

Perché allora la diversità non può essere recepita come un’opportunità di confronto e crescita? Cui prodest? Altra domanda che non si può eludere è quanto la nostra rappresentazione della realtà incida sulla realtà stessa.  Potremmo dire con William Thomas che «se gli uomini definiscono reali certe situazione, esse saranno reali nelle loro conseguenze». Quanto potere ha, dunque, la definizione che diamo dell’altro? Si pone qui la questione del potere performativo delle parole e del potere di chi le dice naturalmente.
È chiaro, però, che le parole per estendere questo loro potere devono trovare un terreno fertile. Possono distorcere la realtà e così cambiarla, solo laddove non c’è nessuno sforzo per evitare questo. In molti casi quando non c’è conoscenza non c’è neanche desiderio di conoscere.

Chiara Valeri

 24 gennaio 2011


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