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La rivoluzione delle lacrime

by Redazione

Di Fabrizio Molina

La ripresa gira sulla rete. Un omone immenso, alto come una villetta di due piani più mansarda e ampio come il tendone del circo Medrano. Una barba rossa come i capelli delle vestali dipinte da Tiziano. Un nome complicato: Nicodemus Daoud Sharaf, vescovo di Mosul. Intervistato da una televisione inglese sulle persecuzioni, le violenze, l’olocausto a cui i mostri dell’Isis sottopongono i cristiani iracheni e curdi. Bambini, vecchi, donne e uomini per i quali, dormire al gelo dell’incombente inverno, essere torturati un giorno sì e l’altro pure, essere costretti a ripetere giaculatorie che rinnegano il loro credo, la fame, la sete, l’eccidio barbaro sono solo i mali minori. E Nicodemus dopo aver risposto con composta umiltà a quattro o cinque domande, scoppia in un pianto dirotto, le spalle scosse come quelle di un bambino, il fazzoletto che gli asciuga il naso sul viso immenso e buono da orsacchiotto dei fumetti.

In quel pianto non c’è traccia di disperazione, ma neanche di denuncia internazionale, perché l’esecrazione del mondo è come un integratore per i boia dell’Isis, la cui bestialità è immensa ma non unica. Neanche nel peggio riescono a primeggiare.

Nel pianto dell’omone immenso c’è il pathos rivoluzionario di chi vuole cambiare il mondo, la dismisura di chi crede che se l’uomo può arrivare tanto in basso, può anche arrivare molto in alto. Di chi sa che questa civiltà qui sta finendo, ma non sta finendo il mondo. Il mondo che nascerà non sarà perfetto ma, almeno per un po’, sarà nuovo. Mi capita di pensare la stessa cosa quando la puntura di una zanzara mi fa particolarmente male e riesco a schiacciarla: “lo so che altre zanzare mi pungeranno dandomi dolore – penso tra me e me inviperito -, ma non tu. Tu no, mai più”.


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