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Lettera (a chi vorrà leggerla) sull’immigrazione

by Redazione

 

Chissà se saremo capaci di trasformare lo sgomento che in molti proviamo in opportunità di rinascita. Chissà se lo renderemo possibile, se ne avremo il coraggio e la forza.
L’Italia assiste oggi a trasformazioni profonde nel suo modo di rapportarsi ai migranti e agli zingari, ma a me sembra qualcosa di diverso e più grave di una crisi di buone leggi, di buona amministrazione, di buon governo.
Sembra a volte che la comunità umana di questo Paese e non solo, abbia smarrito la bussola e l’orizzonte del proprio destino comune e creda possibile che si possa avere meno paura del futuro, scagliandosi contro chi si crede più debole. C’è qualcosa di terribile negli occhi sbarrati dall’ira di quella donna di Ponticelli o di Scampìa che vomita odio e terrore su immigrati e zingari. Come possiamo aver determinato tutto questo? E’ bene dircelo, ne siamo responsabili. Siamo stati noi. Forse faremmo dei passi avanti se riuscissimo a trovare la forza di chiederci dove e quanto abbiamo sbagliato, se avessimo la carica umana sufficiente per domandarci come sia potuto succedere che, mentre il mondo cambiava, noi lasciavamo soli la donna di Scampìa e l’immigrato, non riuscissimo più nemmeno a sentirli e di come, lasciando soli loro, abbiamo abbandonato noi stessi.

 

A me pare che tutti paghiamo un conto salato per esserci contrapposti, tra democratici e conservatori solo in apparenza; negli ultimi vent’anni almeno, lo scontro è stato piuttosto tra due conservatorismi: quello tradizionale di destra, attento e incline alla sicurezza come valore, quello di sinistra, che ha colpevolmente ignorato le degenerazioni gravi di una demagogia dell’accoglienza come variabile indipendente dalla capacità di realizzarla.
E’ sì vero che il mondo è rapidamente e profondamente cambiato, ma quasi tutti abbiamo creduto che si potessero assoggettare i cambiamenti abbracciando le tradizioni più antiche a cui ognuno faceva riferimento: i conservatori diventando più conservatori, gli antagonisti più antagonisti, i territorialisti ancora più ottusamente legati nella difesa di piccolissime e spesso miserabili patrie.
Ci siamo abbarbicati al 900, alle sue ideologie, alla sua geografia, ai suoi ormai improponibili confini. Non siamo ancora alla riproposizione delle ideologie più feroci di quegli anni infelici, ma non è scontato che non vi si possa far ritorno. Quello che fu definito da Weber “il secolo breve” sembra ora vendicarsi, allungando le sue peggiori propaggini ben oltre il nuovo millennio. Un contrappasso pericoloso, iniziato col ridere delle aberrazioni novecentesche, tanto che oggi sono per molti, oggetto di nostalgie.

Io sento come molti il disagio del tempo presente e sento tutta la mia insufficienza nel trovare la mia strada in questo mondo nuovo e sconosciuto. Mi occupo, insieme a preziosissimi amici, di immigrazione e, molto in parte, di Rom; sento sulla pelle tutto lo smarrimento di chi volendo rimanere se stesso, sa che deve cambiare quasi tutta la cassetta degli attrezzi, ma non sa cosa fare, come farlo, dove cercare.
Mi da forza però sapere di aver scelto, tanto tempo fa, di essere un uomo d’azione, un militante, un attivista; tanto tempo fa ho deciso di scendere dalle alture circostanti il campo di battaglia, entrarci dentro e tentare di fare la mia parte. E allora so che chi ha scelto questa strada non può sempre riservare un tempo al pensiero ed uno all’azione; spesso, quasi sempre, deve pensare mentre agisce.
Questa convinzione profonda mi dà coraggio, mi spinge a cercare modi giusti e nuovi o, almeno, più giusti e più nuovi, per contribuire a costruire una società più equa, dove l’aspirazione non sia alla sicurezza, ma alla legalità, dove in ogni diritto si legga in controluce un dovere, dove la scelta non sia tra una società più libera ed una più giusta ma dove appunto la scalata al cielo, che è l’utopia di cui qualunque militante ha bisogno, sia di ambire a giustizia e libertà. Insieme.

Fabrizio Molina

(23 maggio 2008)


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