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Crisi ucraina e diritti fondamentali: siamo ad una svolta europea?

È necessario tornare a fondare il sistema comune di asilo su un concreto ed efficace rispetto del principio di solidarietà e di condivisione delle responsabilità.

di Beppe Casucci – ROMA- 10 marzo 2022 – Ad oltre due settimane dall’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, il numero di sfollati ha superato quota 2,5 milioni ed il pronostico delle Nazioni Unite è di un numero altissimo di potenziali richiedenti asilo. Si tratta nella stragrande maggioranza di donne e bambini, mentre gli uomini sono rimasti a difendere il proprio Paese.

In questa riflessione tralasciamo un giudizio – che sarebbe invece opportuno – sui motivi che hanno causato la guerra, le implicazioni umane e sociali e le conseguenze drammatiche sulle persone e le loro vite: un giudizio che non potrebbe altro che essere negativo e di rigetto radicale dell’uso delle armi, specialmente contro i civili inermi. Qui però ci limitiamo a valutare le implicazioni che la fuga in massa di una parte della popolazione da quel Paese (oltre 44 milioni), per sottrarsi dai bombardamenti e dai massacri, può avere e sta già avendo sull’Europa. Un impatto economico e sociale che cambia la geopolitica mondiale e – nel nostro piccolo- si traduce nella necessità di organizzare il sostegno e l’accoglienza di un numero incalcolabile di persone.

Riteniamo anche necessario valutare gli strumenti legislativi che vengono utilizzati per far fronte a flussi massicci ed improvvisi di persone disperate, flussi non gestibili con le leggi nazionali in materia di asilo, né con il Regolamento di Dublino. In Italia la comunità Ucraina è tra le più numerose d’Europa (248 mila nel 2021) per cui i nuovi arrivati – si contano attualmente quattromila ingressi di Ucraini ogni giorno – trovano quasi sempre rifugio presso famiglie ed amici della stessa nazionalità. Crescendo il numero di sfollati in arrivo (siamo già a trentamila) l’ospitalità pubblica è destinata a diminuire, con il rischio che vada ad esaurirsi. Da qui le disposizioni prese dal Governo italiano di destinare circa 10 mila posti nelle strutture di accoglienza CAS e SAI per far fronte ad un arrivo che potrebbe facilmente superare le 100 mila unità se la guerra dovesse durare a lungo.

Dall’inizio della crisi Russia-Ucraina e dell’attacco russo, lo scorso 24 febbraio, nel giro di poche ore è partita in quarta la macchina della solidarietà internazionale, e anche quella italiana. Associazioni, protezione civile, prefetture, parrocchie e privati cittadini si sono subito messi in moto per dare aiuto alle migliaia di cittadini ucraini in fuga dal Paese.

Il governo ha subito attivato lo stato di emergenza umanitaria, che durerà fino al 31 dicembre 2022, stanziando fondi per ulteriori posti nei centri di accoglienza e per prestare sostegno civile e militare al Paese guidato dal presidente Zelensky, in queste ore sotto duro attacco delle forze di Putin.

Uno stanziamento di 3 milioni di euro dal Fondo per le emergenze nazionali è stato destinato all’attuazione degli interventi urgenti di supporto alle attività di soccorso ed assistenza alla popolazione. Per l’attuazione dei primi interventi sono stati stanziati altri 10 milioni di euro dal Fondo per le emergenze nazionali. Cifre importanti, ma probabilmente limitate a fronteggiare una prospettiva che si preannuncia incerta e problematica.

I profughi ucraini in Italia continuano ad aumentare, ma siamo solo all’inizio. L’esodo della popolazione civile – come dimostra la difficoltà nell’aprire dei corridoi umanitari utilizzabili – deve ancora cominciare veramente. Certo, in questo caso il nostro Paese non è esposto in prima linea come – ad esempio – per quanto riguarda la rotta del Mediterraneo. La condizione più difficile in queste ore la stanno affrontando i Paesi confinanti con l’Ucraina, come la Polonia, ma l’accoglienza sarà estesa a tutta l‘Unione europea.

L’Unione europea da parte sua ha cercato di rispondere all’emergenza sfollati attivando una direttiva creata più di 20 anni ma e mai utilizzata: la n. 55 del 2001. La direttiva sulla protezione umanitaria era stata emanata dopo le vicende della guerra in Kosovo ed immaginata per far fronte a grandi numeri di sfollati non facilmente gestibili con le attuali normative sull’asilo: lunghe e farraginose, dunque inadatte a gestire situazioni emergenziali.

Che cos’è questa protezione temporanea? Come indicato dalla stessa Direttiva si tratta della “procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine, una tutela immediata e temporanea” (art.2). La Direttiva ha due scopi fondamentali. Il primo è di evitare che un enorme numero di persone nella medesima condizione (fuga dalla guerra) siano inutilmente sottoposte ad un esame individuale della loro richiesta di protezione creando una paralisi delle procedure amministrative e, parallelamente, fare in modo che i profughi possano subito “godere di diritti armonizzati in tutta l’Unione che conferiscano un livello di protezione adeguato, comprendente titoli di soggiorno, la possibilità esercitare qualsiasi attività di lavoro subordinato o autonomo e di essere adeguatamente alloggiati, la necessaria assistenza sociale, medica o di altro tipo e contributi al sostentamento”.

Un altro importante obiettivo della Direttiva è fare in modo che gli Stati accolgano “con spirito di solidarietà comunitaria le persone ammissibili alla protezione temporanea. Gli Stati Membri dovranno indicare anche la loro capacità d’accoglienza in termini numerici o generali”. Sulle modalità con cui dare attuazione a questo principio di solidarietà la Direttiva rimane del tutto generica, precisando solo che le indicazioni sulla capacità di accoglienza date da ogni Stato “sono inserite nella decisione” con cui il Consiglio Europeo dichiara, a maggioranza qualificata, che ricorrono le condizioni per l’applicazione della Direttiva.

Se consideriamo che la Direttiva 55/2001 si colloca nella primissima fase del processo di costruzione di un sistema unico di asilo in Europa, essa non va criticata per la sua vaghezza sul funzionamento delle procedure di solidarietà. Semmai va vista in essa una lungimiranza che negli ultimi anni nella Ue si è affievolita fino a spegnersi del tutto, lasciando spazio a una cupa situazione nella quale non solo il principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati nella gestione dei rifugiati non si è rafforzato, bensì gran parte degli Stati Ue (Visegrad ma non solo) ha fatto della contrarietà radicale alla solidarietà la propria bandiera politica e ha spinto l’intera Unione su posizioni di chiusura sempre più estreme.

Fare stime di quanti sfollati provocherà il conflitto in Ucraina è impossibile perché ciò dipenderà dall’evolversi degli eventi, ma la Commissione Europea stima come “possibile una cifra compresa tra 2,5 e 6,5 milioni di sfollati a causa del conflitto armato, da 1,2 a 3,2 milioni dei quali potrebbero chiedere protezione internazionale”. L’attivazione della protezione temporanea e l’avvio quanto prima di un piano europeo di accoglienza che comprenda anche quote di ripartizione tra i vari stati è dunque una scelta non solo adeguata ma virtualmente obbligatoria. La protezione riguarda, come è ovvio, tutti i cittadini ucraini fuggiti dopo il 24 febbraio 2022 in conseguenza del conflitto e i loro famigliari, e viene estesa anche ai parenti stretti (cittadini ucraini o non) che vivevano insieme al nucleo famigliare al momento del conflitto e che erano “parzialmente o totalmente dipendenti” dallo stesso. La Commissione ha altresì proposto che la protezione temporanea sia estesa anche ai cittadini non ucraini ma di paesi terzi che soggiornavano legalmente in Ucraina e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel loro paese o regione di origine.

Si tratta di proposte certamente condivisibili e conformi alla ratio giuridica che è a fondamento della protezione temporanea quale misura provvisoria e di immediata attuazione finalizzata a coprire una vasta collettività. In modo sorprendente (o forse non troppo) i paesi Ue del gruppo di Visegrad più l’Austria hanno contestato in sede di Consiglio l’estensione della protezione temporanea a cittadini non ucraini rendendo incerta fino all’ultimo minuto la procedura di attivazione stessa della Direttiva e comunque raggiungendo l’obiettivo di restringere la proposta iniziale della Commissione. Certo, a cittadini non ucraini che vivevano in Ucraina rimane comunque, inalienabile, il diritto di presentare una domanda di asilo alla frontiera esterna dell’Unione, ma poco si comprende, su un piano razionale, quale oscuro timore sia stato alla base di questo ennesimo tentativo di chiusura così eticamente urticante. Forse che sia necessario agire valorosamente per impedire che gli stranieri che vivevano in Ucraina con perfida sagacia “approfittino” della guerra e della protezione temporanea per venire a insediarsi in massa nell’Unione europea?

Dalla direttiva sono comunque esclusi gli stranieri presenti in Ucraina con permessi brevi (per lavoro o per studio) e ovviamente i cittadini di Paesi terzi presenti in Ucraina in forma irregolare. Non sono rari i casi di cittadini africani respinti al confine con la Polonia, solo per il colore della pelle o per non avere il permesso di lungo soggiornanti.

Questa sorta di ossessione alla chiusura verso i non europei che non trova pace neppure in tempo di guerra porta all’ultima importante considerazione: la Direttiva 2001/55/UE era considerata fino ad oggi, a ragione, una sorta di norma nata morta e destinata ad essere abrogata con il pacchetto di riforme presentato dalla Commissione in carica. Questa sua triste storia di norma mai applicata per ventun anni non dipende affatto dalla circostanza che in questi decenni non si sia mai verificato in Europa un “afflusso o imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine”. Al contrario, tale situazione si è verificata in più occasioni a seguito delle quali l’applicazione della Direttiva è stata incessantemente invocata da studiosi ed associazioni. Solo ultime in ordine di tempo vanno ricordate la cosiddetta Primavera Araba del 2011, la crisi siriana della metà del decennio scorso e il tracollo dell’Afghanistan dell’estate 2021. Situazioni in cui sindacati ed associazioni hanno ripetutamente invocato l’attivazione della direttiva, senza essere minimamente ascoltati.

Va infine sottolineata un’altra notevolissima caratteristica di questa Direttiva volutamente messa in un angolo e dimenticata: la nozione di afflusso massiccio vi viene così definita: “L’arrivo nella Comunità (oggi Unione ndr) di un numero considerevole di sfollati, provenienti da un paese determinato o da una zona geografica determinata, sia che il loro arrivo avvenga spontaneamente o sia agevolato, per esempio mediante un programma di evacuazione”.

La Direttiva era stata concepita dunque non solo per rispondere a un arrivo diretto di sfollati, come è ora il caso ucraino, ma per gestire le crisi internazionali di rifugiati da affrontare anche attraverso programmi di evacuazione verso l’Europa connotati da alti numeri. Perché tutto ciò non è stato mai attuato e si è sostenuto a lungo che alcune scelte fossero impossibili, quando invece erano e sono fattibili e già si disponeva di uno strumento giuridico, anche se imperfetto e un po’ desueto, per realizzarle? Tanti, troppi, hanno preferito non agire lasciando degenerare il sistema di asilo in Europa, accusando come ragione l’ondata nazionalista e xenofoba che ha cercato, spesso con successo, di bloccare tutto. Ma la realtà è che a questa ondata ci si è piegati culturalmente fino quasi a farne parte. L’attivazione della Direttiva sulla protezione temporanea – sua ultima eccellente ma sconosciuta caratteristica – non richiede affatto l’unanimità ma solo la cosiddetta maggioranza qualificata degli Stati membri. Un requisito non facile ma affatto impossibile da raggiungere, se si fosse voluto, in molte circostanze; però non si è voluto, così che la responsabilità della resa alla gestione delle crisi e alla difesa dei diritti umani non è attribuibile solo agli stati “cattivi” ma è molto più diffusa.

La difficile storia della Direttiva sulla protezione temporanea, crediamo, racchiude in sé tutte le contraddizioni di un’Europa che si è sempre più allontanata dai suoi valori fondanti. La sua applicazione ad oltre due decenni dalla nascita deve rappresentare un segno di cambio di direzione rispetto alle proposte sbagliate avanzate dalla Commissione nel cosiddetto Patto per l’immigrazione del settembre 2020, per tornare a fondare il sistema comune di asilo su un concreto ed efficace rispetto del principio di solidarietà e di condivisione delle responsabilità.

Beppe Casucci


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