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Il quarto mondo in casa nostra: vecchie e nuove forme di schiavismo

by Redazione

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di Giuseppe Casucci al Convegno Contromafie

<<L’uomo si fa strada nel fango, tra rifiuti e casette di cartone. Accanto a lui un gruppo di gambiani costruisce nuove abitazioni martellando su travi di legno. Un’anima di pallet, uno strato di cartone e una protezione di plastica per impermeabilizzare. Ecco pronta un’altra baracca. Nigeriani inventano negozietti: vendono burro di arachidi, bustine di antinfiammatorio e doppio concentrato di pomodoro. Le autorità hanno allestito tende per 500 posti, recintati e videosorvegliati. È il terzo tentativo. Ogni volta i campi eretti da funzionari dello Stato sono stati circondati da baracche e rifiuti, lasciati nell’abbandono e quindi ricostruiti un po’ più in là. Anche questa volta, intorno all’insediamento statale, è cresciuta una città informale>>.

A scrivere questo efficace reportage è il settimanale l’Espresso. La scena descritta non si svolge in Gambia, in Somalia o in Nigeria: ma a Rosarno in Calabria. Oppure nel Foggiano o a Castel Volturno: in una delle tante campagne del sud del nostro paese. Malgrado la legge contro il caporalato e le norme anti tratta, continuano nel mercato del lavoro italiano degrado, emarginazione e forme grave di sfruttamento. Qualcuno le definisce para schiavismo. Fino a quando?

Tratta e lavoro forzato nel mondo

Secondo ILO le vittime di traffico di esseri umani per lavoro forzato nel mondo superano i 21 milioni, di cui quasi 900 mila in Europa. Il 55% sono donne. Secondo Eurostat, il 69% è sfruttato per motivi sessuali, il 19% per sfruttamento lavorativo grave. Poi c’è l’orrore dell’espianto di organi o la vendita di bambini e ancora l’avvio alla mendicità.

Per quanto riguarda il lavoro nero o gravemente sfruttato, il confine è molto labile: i settori più interessati da questo genere di piaga in espansione sono l’agricoltura, l’edilizia, il lavoro domestico ed il settore manifatturiero.

E in Italia, nel 2016, le vittime di tratta censite e inserite in programmi di protezione sono state 1.172, di cui 954 donne e 111 bambini e adolescenti, in gran parte di genere femminile (84%). Le vittime under 18 sono soprattutto di nazionalità nigeriana e rumena (8%). Lo sfruttamento sessuale rappresenta la metà dei casi (50%). Poi c’è lo sfruttamento lavorativo grave (20%) e lo sfruttamento in economie illegali come lo spaccio e l’accattonaggio . Tratta e sfruttamento hanno coinvolto nel nostro Paese circa 15 mila minori accertati, il 50% tra i 16 e i 17 anni, in maggioranza italiani ma anche originari di alcuni paesi dell’Africa e anche rumeni. Gli adulti sospettati o incriminati per reati connessi alla tratta o allo sfruttamento sono in maggioranza uomini e di origine rumena, nigeriana e italiani. Sono informazioni abbastanza parziali in quanto con l’arrivo di ingenti flussi di immigrati negli ultimi cinque anni  il fenomeno è andato ingigantendosi. Inoltre, sul fronte del lavoro, il confine tra lavoro nero e sfruttamento lavorativo grave si è andato assottigliando, e quello che emerge è solo la punta dell’iceberg.  Va poi considerato che, mentre nel caso della tratta per motivi sessuali esiste una sorta di repulsione morale nell’opinione pubblica, nel caso dello sfruttamento lavorativo (anche serio) si tende culturalmente a tollerarlo di più a causa della crisi economica e lavorativa. Spesso, inoltre, trattandosi le vittime di cittadini stranieri in condizione di irregolarità, la tendenza di molti italiani è quella di sottovalutare questa piaga, mentre quella delle vittime è quella di nascondere le gravi condizioni di sfruttamento, per paura dell’espulsione.

Tratta e sfruttamento lavorativo

Secondo l’Istat in Italia sono almeno 3,3 milioni i lavoratori in nero in imprese (vere o fasulle) in molti settori produttivi, cosa che ha portato l’economia sommersa nel nostro paese a toccare un valore di 190 miliardi di euro. E’ in questo contesto che l’economia sommersa ha fatto cassa grazie alla crisi, cambiando gli equilibri in gioco e spingendo la parte più debole, ossia i lavoratori, anche a sottostare a condizioni irregolari pur di avere un lavoro. Così, mentre l’occupazione regolare è scesa tra il 2012 e il 2016 del 2,1%, nello stesso periodo è aumentata quella irregolare del 6,3%, arrivando ad ‘inglobare’ 3,3 milioni di lavoratori italiani e stranieri, che svolgono le loro mansioni nell’ombra.

L’incidenza dell’economia sommersa sul Pil italiano è andata crescendo costantemente, attestandosi all’11,5%, mentre la quota dell’impiego del lavoro irregolare sul pil è valutata essere vicina al 5%. Si tratta di molti stranieri, o richiedenti asilo, ma anche di italiani costretti dalla crisi ad accettare forme di lavoro precario, retribuzioni ben al di sotto dei minimi contrattuali, orari spropositati e condizioni di lavoro pesanti e pericolose. Solo in agricoltura sono valutati in quasi 400 mila i lavoratori irregolari; nel commercio sarebbero quasi un quarto (24,9%), nelle costruzioni il 23%  mentre nel lavoro domestico sarebbero più di un terzo i lavoratori totalmente o parzialmente in nero.

E’ indubbio che l’arrivo negli ultimi 4 anni di oltre 600 mila migranti via mare, ha prodotto estesi fenomeni di dumping lavorativo, rimpinguato le casse dei trafficanti e gonfiato il fenomeno del lavoro sottratto ad ogni regola, con salari a volte inferiori ai 5 euro l’ora e turni di lavoro massacranti.

Come detto, non si tratta solo degli stranieri: la precarizzazione del mercato del lavoro ed il ricatto della crisi hanno portato al proliferare di situazioni estreme che non colpiscono solo cittadini stranieri e irregolari. Spesso molte pseudo imprese hanno praticato il dumping lavorativo e la concorrenza sleale come unico modo per rimanere a galla o aumentare i propri profitti. Il risultato è un sistema economico e produttivo italiano in declino e degrado che misura la propria competitività non su innovazioni tecnologiche di processo o di prodotto, ma sullo sfruttamento al ribasso di esseri umani. Questo naturalmente produce un ritardo progressivo del sistema Italia che sarà sempre più difficile recuperare. Anche le professionalità dei cittadini stranieri vengono ignorate in quanto il lavoro che viene richiesto loro è quello a bassa competenza professionale.  Una situazione che è andata incancrenendosi anche a causa del blocco del decreto flussi d’ingresso per lavoratori stranieri a tempo indeterminato, fermo dal 2010. Di modo che nessuna forma di emersione dalla irregolarità è possibile secondo le norme attuali.

La legislazione contro tratta e lavoro forzato

La legislazione in materia di tratta fa riferimento in Italia alla legge n. 228/2003 (misura contro la tratta delle persone) o all’art. 18 del dlgs n. 286/1998 che concerne la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. Le norme forniscono strumenti adeguati per combattere queste piaghe con gravi pene detentive per i colpevoli, confisca dei beni e patrimoni,  ed assistenza per le vittime. Nel caso dell’art. 18 (soggiorno per motivi di protezione sociale) è previsto un permesso di soggiorno umanitario per i cittadini stranieri vittime di tratta, con programmi di assistenza e integrazione sociale.

Per quanto riguarda il lavoro forzato, fin dal 1934 l’Italia ha ratificato (legge 274) la Convenzione ILO n. 129. La riduzione in schiavitù inoltre rientra nell’art. 600 del codice penale italiano e punisce severamente i colpevoli.

Per combattere lo sfruttamento lavorativo grave, è stata introdotta a fine 2016 la cosiddetta legge contro il caporalato (legge 199/2016). Questo dispositivo modifica l’art. 603 bis del codice penale ed aumenta le pene di chi si rende colpevole di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, con severe pene detentive e confische dei beni. Il problema principale, nel caso dei lavoratori stranieri irregolari, è che la legge non fornisce adeguata protezione alle vittime che in genere evitano di sporgere denuncia per paura di essere poi espulse dal Paese.

Perché la legislazione non basta.

Gli strumenti normativi per combattere tratta e sfruttamento lavorativo (grave e non) dunque non mancano, ma non sempre sono adeguati a rispondere ad un fenomeno in costante evoluzione e trasformazione.

Gli stranieri: per quanto riguarda i migranti irregolari coinvolti nel lavoro gravemente sfruttato, il loro obiettivo è lavorare a qualsiasi condizione per mandare soldi nei Paesi d’origine, magari per pagare i debiti di viaggio.  Sono quasi sempre vittime di abusi, violenze e sopraffazioni da parte del datore di lavoro o del caporale. La legge in teoria li può certo tutelare, ma non prevede adeguate garanzie di emersione dalla condizione di irregolarità. C’è poi l’aspetto di deterrenza risultante dal comportamento dei compagni di lavoro di chi vorrebbe denunciare il datore sfruttatore. Spesso sono gli stessi compagni della vittima  a fare forti pressioni perché il datore o caporale non venga denunciato, per non perdere un possibile guadagno; in generale la mancanza di informazioni o la paura di essere espulsi o esclusi dal lavoro porta la grande maggioranza a tacere e a subire condizioni di lavoro non di rado para schiavistiche.

Inoltre: molti lavoratori in nero sono cittadini italiani, europei, titolari di protezione internazionale e l’idea di una possibile regolarizzazione non li attrae particolarmente. In genere preferiscono lavorare in nero, guadagnare un po’ di più e (nel caso di est europei) andare e venire dal loro Paese. Dunque la legislazione dovrebbe tener conto delle molte sfaccettature nel mercato del lavoro ed eventualmente adottare correzioni (ad esempio prevedendo un processo certo di emersione dalla irregolarità per le vittime, percorsi premiali per le imprese che scelgono la legalità, ecc.).

I controlli sul territorio: molto viene fatto dalle autorità in materia di ispezioni e dobbiamo ringraziare per questo chi si espone a rischi per combattere le mafie, ma purtroppo quanto viene fatto non basta a causa dell’estensione del fenomeno e  la difficoltà oggettiva dei controlli. Nel caso del lavoro domestico, ad esempio, essendo il luogo di lavoro un domicilio privato, una ispezione diventa più difficile, a meno di denunce formali e l’intervento di un magistrato. Ci sono poi gli aspetti relativi alla presenza della criminalità organizzata, in alcune aree non solo del sud, la cui gestione dell’intermediazione della manodopera e lo sfruttamento delle persone, rende più complicata sia l’opera di ispezione, sia la possibilità di denunce da parte delle vittime.

Il caporalato: il caporalato viola certamente la legge e per questo va punito, ma uno dei motivi per cui continua ad esistere e proliferare, è anche perché fornisce una risposta in termini di intermediazione della manodopera più efficace delle strutture pubbliche preposte. Spesso da parte di imprenditori o datori di lavoro (o pseudo tali) in quei settori, viene lamentata la mancanza di tempestività degli uffici per l’impiego, a fronte di una domanda immediata di manodopera. Il caporale invece – oltre a garantire un salario molto più basso di quello contrattuale – provvede ad un rapido reclutamento, al trasporto, spesso ad una forma (gravemente deficitaria) di alloggio per il migrante, e soprattutto alla garanzia di controllo sul comportamento dei malcapitati sfruttati. Questo costerà loro un’ulteriore riduzione nel guadagno e orari di lavoro massacranti, ma maggiori garanzie per chi li contratta. Mentre combattiamo i fenomeni distorsivi, dunque, sarebbe importante poter fornire alternative sia in termini di legalità, quanto di efficacia.

contributo di Giuseppe Casucci al Convegno Contromafie

 


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