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Immigrazione: dalla crisi economica, l’occasione per cambiare

by Redazione

Di Giuseppe Casucci

Dopo 10 anni di crescita ininterrotta, la presenza di stranieri nel nostro Paese segna una lunga battuta d’arresto a causa della crisi economica. In un certo senso, siamo di fronte ad un mutamento di scenario che è necessario tener di conto, se vogliamo comprendere questo fenomeno e dare risposte adeguate.

Gli stranieri rappresentano ormai il 13% dell’occupazione nazionale complessiva, con un’incidenza particolarmente elevata nel settore delle costruzioni (21,7%) e in agricoltura (15,9%).

Sono 4.387.721 gli stranieri legalmente residenti sul territorio nazionale (dati 2011 Istat), pari al 7,3% della popolazione complessiva. Gli stranieri sono anche contribuenti che pagano le imposte: in Italia si contano complessivamente 3,4 milioni di contribuenti nati all’estero (dati 2011) che dichiarano al fisco quasi 43,6 miliardi di €. Gli stranieri dichiarano mediamente 12.880 € (6.780 € in meno rispetto agli italiani) e si tratta quasi esclusivamente di redditi da lavoro dipendente. Nel 2011 i nati all’estero hanno pagato di Irpef 6,5 miliardi di €. Per quanto riguarda i soldi mandati a casa, nel 2012 il volume delle rimesse ammonta a 6,8 miliardi di €, pari allo 0,44% del Pil.

Dal 2008 al 2013 si è assistito in Italia ad un aumento esponenziale del ‘tasso di disoccupazione straniera’ passato dall’8,1% a quasi il 18%. E contemporaneamente, pur essendo aumentati anche il numero di occupati, il tasso di occupazione straniera è però calato di 6,5 punti percentuali arrivando al 58,1% nel II trimestre 2013 (contro il 55,4% degli italiani). La forbice dei tassi di attività si sta, dunque, progressivamente riducendo, anche per una maggiore propensione degli italiani alla mobilità professionale e al peso occupazionale della crisi.

Nel primo e secondo semestre 2013, la crisi occupazionale registra una forte impennata, con circa 511 mila stranieri iscritti alle liste di disoccupazione e oltre 1,25 milioni risultanti “inattivi”. Il tasso di disoccupazione balza al 17,9%, ben 6,6 punti in più rispetto gli italiani.

La crisi sta anche modificando gli equilibri tra occupazione italiana e straniera, la prima sempre più progressivamente disposta a ricercare impieghi che da tempo sono di esclusivo appannaggio dei migranti. Non sono pochi inoltre gli stranieri che decidono di lasciare il nostro Paese per ritornare a casa o per cercare impiego in un’altra nazione: nel 2011 – secondo stime ufficiali – l’uscita di 32mila cittadini stranieri avrebbe privato le casse del nostro Stato di almeno 86 milioni di euro. Lo stesso anno ha visto anche l’uscita di circa 68 mila nostri giovani in cerca di un futuro all’estero.

Vista la precaria situazione occupazionale, il Ministero del Lavoro intende consigliare al Governo di non emanare decreti flussi per lavoratori subordinati per il secondo anno consecutivo. Una scelta apparentemente inevitabile, ma anche un segnale negativo che appare come una completa chiusura all’ingresso legale in Italia per motivi di lavoro. Era preferibile, io credo, un dispositivo che comunque lasciasse aperta la porta a chi poteva dimostrare di avere in mano un’assunzione certa. Una sorta di meccanismo d’ingresso ad personam.

Se però la scelta è quella di chiudere le porte per aiutare gli stranieri (e italiani) disoccupati, il governo farebbe bene a concertare con le parti sociali quali saranno le politiche attive di inserimento occupazionale di chi vive e cerca lavoro in Italia, italiano o straniero che sia.

Anche perché – su questa strada – non si vede minimamente l’uscita dal tunnel.

Non bisogna poi dimenticare l’altro versante: quello della pressione migratoria dal Mar Mediterraneo, i flussi provenienti dall’Africa sono in forte aumento, anche a causa di guerre e persecuzioni oltre che da fattori di natura economica. Come spesso succede, la rigidità delle norme diventa una favolosa occasione di guadagno per chi specula sulle sventure altrui. E con risultati disastrosi come documentato dalle molte tragedie accadute negli ultimi vent’anni.

Nel 2013 (dati ministero Interno del 14 ottobre) sono sbarcati sulle nostre coste oltre 36 mila persone, in condizioni tanto rischiose da provocare tragici naufragi come quelli avvenuti di recente con centinaia di vittime. E non è certo la prima volta: Fortresse Europe stima che siano almeno ventimila gli esseri umani morti dal 1988 nel tentativo di attraversare il Canale di Sicilia: una cifra davvero spaventosa.

Si tratta spesso di potenziali richiedenti asilo o rifugiati che non possono essere trattati alla stregua di migranti economici irregolari, per una ragione molto semplice: loro fuggono da situazioni che mettono a rischio la loro vita e spesso non possono ritornare nel loro Paese di origine. Persone a cui l’Italia e l’Europa hanno l’obbligo morale – oltre che legale – di accogliere e dar loro protezione.

La crisi economica e il rallentamento dei flussi verso l’Italia sono certo un segnale inquietante, ma è anche l’occasione per ripensare radicalmente la politica migratoria e del governo dei flussi. Oggi più che mai, una legge di contenimento dell’immigrazione – qual è la Bossi Fini – non ha davvero nessun senso a fronte di un quadro di abbandono dell’Italia da parte di immigrati e di molti giovani italiani. Va invece ripensata – a nostro avviso – una normativa che renda l’Italia professionalmente appetibile, per i nostri giovani innanzitutto e per l’immigrazione qualificata di cui avremo bisogno se vogliamo rilanciare lo sviluppo.

C’è un’altra preoccupazione che va considerata e che vediamo praticamente assente dal dibattito politico: il gap demografico. L’Italia, negli ultimi 20 anni, ha perso 5 milioni di autoctoni a causa della bassa fertilità. Un gap che è stato compensato da un afflusso di stranieri che negli anni duemila è stato in media di 400 mila ingressi l’anno. Cosa succederà se – come sta già accadendo – questo afflusso diminuirà o cesserà quasi del tutto? Non va dimenticato che lo sviluppo di una nazione si fonda sui suoi cittadini e la diminuzione della nostra popolazione non compensa gli effetti della crisi economica, ma rappresenta solo un segnale d’inarrestabile declino.

 

 

 


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