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La responsabilità sociale dell’impresa

by Redazione

 

Risposta all’editoriale di Luigi Zingales apparso l’8 luglio su Il Sole 24 ore.

 

Con coraggio e originalità intellettuali, Luigi Zingales interviene sul delicato e controverso tema della responsabilità sociale dell’impresa e lo fa dalle colonne de Il Sole 24 ore, la massima tribuna editoriale per ragionare di politiche economiche.
Bisogna dargli atto della ragionevolezza degli argomenti usati per denunciare i rischi che sul vischioso terreno dei soldi spesi dalle imprese a fin di bene, si addensino interessi talora deteriori, una cattiva cultura economica e una cultura sociale anche peggiore.
Questo merito gli va riconosciuto, anche perché è l’unico. Per il resto, l’articolo ha sembianze di una catilinaria, nel corso della quale Zingales sostiene che il vero compito delle aziende non è quello di fare impresa buona ma buona impresa, che se è invalsa la moda del bilancio sociale, ciò si deve a politici un pò intriganti e società civile piagnona, sempre a caccia di denari. D’altronde, egli mette in guardia dal rischio che imprese con pochi scrupoli vogliano farsi pubblicità facile e a basso costo, gettando molliche a chi è affamato, finanziando qualche convegno, o sostenendo associazioni amiche di qualche proprio dirigente.
Convengo sul fatto che da quando si è cercato di mettere in relazione e dialogo mondi diversissimi quali sono quello delle imprese e quello del sociale, molti sono stati gli errori compiuti e gracilissimi i risultati raggiunti ma, se Zingales volesse far fiducia ad uno che milita da dieci anni nel sociale e lavora da tredici in una tra le maggiori federazioni di Confindustria, lo vorrei invitare a considerare il problema almeno da un altro punto di osservazione.

La verità è che il nostro mondo è, come Zingales sa bene, in tumultuosa evoluzione: i meccanismi collegati ai processi di globalizzazione, la relativa facilità negli spostamenti umani, i progressi scientifici che determinano un allungamento dell’attesa di vita, il rischio crescente di espulsione dal circuito del benessere di nuove fasce di popolazione occidentale, l’emergenza educativa e le difficoltà oggettive dei nuclei familiari, pongono nuove esigenze e nuove sfide, senza neanche scomodarsi a cercarle in Africa. Il cambiamento impatta con una crisi di risorse economiche che, come Zingales sa, non sarà di breve periodo e, dunque, se non si ritiene che chi non ha sulla sua pelle il problema possa ignorarlo, occorre sapere che persino fatti totalmente positivi come l’allungamento dell’età media, pongono sfide difficili non solo in tema di pensioni ma anche di nuovo welfare tout court.
Ciò comporta molte importanti conseguenze. La mano pubblica non può fare a meno di un forte settore del privato sociale per riscrivere un patto di sussidiarietà che consenta di dare servizi alla popolazione a costi sopportabili per la collettività. Questa necessità comporta che il sociale si rinnovi e molto profondamente. Esso deve acquisire la definitiva consapevolezza che non necessariamente ogni denaro speso a fin di bene è un denaro speso bene. Occorre che il mondo del sociale assuma più responsabilità sull’uso delle risorse di tutti, che persegua con forza l’obiettivo di dare trasparenza al tracciato del denaro che gli viene affidato e non si sottragga alla innovazione di cui l’intervento sociale ha disperato bisogno. La vecchia idea secondo cui il settore del sociale è qualcosa “di più e di diverso” rispetto a qualunque altro settore, ammesso che sia vero va dimostrato, non declamato.

Detto ciò, sul fatto che l’impresa sia e anzi debba rimanere estranea a tutto questo, Zingales ha del tutto torto. Dal sistema imprenditoriale ci si aspetta soprattutto l’impegno a divulgare una cultura di impresa faticosamente (anche se non ovunque) conquistata, occorre che mondi che nessuno avrebbe immaginato dialogassero, oggi mettano in comune competenze per obiettivi comuni che risiedono in definitiva, nella difesa di un sistema sociale ordinato e sicuro per tutti. Il sistema delle imprese ha iniziato a capire che i tempi e la società hanno bisogno di impegni inediti per tutti, soprattutto nel campo delle esperienze, della professionalità, della passione persino. Perché è anche interesse dell’impresa che nasca un welfare che, in prospettiva, raffreddi le tensioni economico-sociali che si potrebbero aggrumare e porsi fuori controllo. E’ vero, impresa sociale si fa con lavoro buono, con contratti veri, con le norme di sicurezza, ma anche con forme in parte nuove di impegno in una società più ampia e insieme più piccola, di certo più complessa. E l’impresa sembra aver deciso di impegnarsi in questo, senza ovviamente dimenticare la propria principale missione; ed ha deciso di farlo, per le responsabilità che gli vengono dall’essere uno dei principali attori della scena civile. Credo che abbia deciso di farlo perché tutte le volte che i veri imprenditori hanno fatto più della loro parte (come ad esempio con il Patto Sociale del ’93), hanno dimostrato di tenere insieme e in piedi il Paese. E un Paese in piedi è parte determinante dell’interesse dell’impresa.
E molti imprenditori sentono di dover e voler fare quanto è nelle loro possibilità per contribuire a riprogettare l’intervento sociale, perché sanno che in un Paese moderno e civile, dunque anche da noi, l’obiettivo di pensare a far bene il proprio mestiere e che ognuno faccia bene il suo, può essere saggio, ma non basta più.

Fabrizio Molina

(22 luglio 2008)    


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