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Lettera aperta a Domenico Lucano

by Redazione

Caro Sindaco,

mi rivolgo a lei con la qualifica che gli elettori le hanno assegnato e che, secondo me e molti altri, vige fintanto vige la sua presunta innocenza. Scrivo a lei anche pensando alla mia sinistra, ai miei cattolici, agli scout e alle associazioni che sono sfilate sotto casa sua e che lei ha salutato con il gesto antico ed emozionante del pugno chiuso, che non evoca la violenza ma l’unità.

Se fossi in grado di non bloccarmi per una antica timidezza irrisolta, la chiamerei “compagno”, nel puro etimo del termine che veniva spesso ricordato da don Andrea Gallo nelle sue omelie: compagno vuol dire  “cum panis”, pane condiviso. E questo pane condiviso non ha razza, non ha religione, non ha frontiere; esso è l’umanità declinata al singolare nella sua immensa pluralità, essa è l’idea, l’inquietudine, la tormentata certezza di poter aspirare al bene e al meglio solo se anche gli altri possono.

Lei ha fatto di Riace quello che Fidel Castro diceva della sua Cuba. Un avamposto nelle fauci del drago; nel suo caso il drago non sono gli Usa ma la folle paranoia ‘ndranghetista violenta e primitiva con i suoi riti orrendi, lo sfregio della fede, i suoi santi e le sue reliquie portate in giro come i cannibali del Borneo portavano sulla picca le teste dei nemici. Il drago è la pessima e preistorica amministrazione, la strage di legalità che viene commessa ogni giorno, senza un attimo di requie. Il drago è la corruzione e la concussione come mezzo ma anche come fine. L’aggiramento della legalità, anche per gli interessi più miserabile, come tentativo plebeo di recupero di autostima. Il farsi togliere un divieto di sosta non perché non puoi pagare ma perché ce l’hai più lungo. Un recupero che invece potrebbe avvenire davvero solo smettendo di essere ciò che si è e si è stati, liberando i calabresi per bene dalla morsa feroce della paura e della sopraffazione, che muoiono di ‘ndrangheta come gli yazidi, i palestinesi, i siriani, gli iracheni sono musulmani falciati da altri musulmani.

Lei non ha fondato il “modello Riace”, che è un modo di dire insulso più adatto alla Silicon Valley che a una cosa come la sua. Lei ha costruito un luogo, dove si dimostra che recuperare la propria umanità è possibile e persino non difficile.

Per questo, col cuore straziato, le dico che se fosse vero ciò di cui la accusano, lei avrebbe sbagliato. E lei credo lo sappia. Lei non sa come si fa disobbedienza civile; non sono mai stato radicale ma le sarebbe bastato leggere qualcosa di Marco Pannella; lui avvertiva l’universo mondo che quel certo giorno sarebbe stato a Piazza Navona a distribuire hashish, finita la distribuzione o le forze dell’ordine lo denunciavano o lui denunciava loro e autodenunciava se stesso. Perché disobbedire si può, lottare per cambiare le leggi sbagliate – come l’ultimo Decreto sicurezza – si deve, ma finché vigono si rispettano. La lotta non violenta bisogna, come tutto, saperla fare. Lei di certo non sa nemmeno cosa sia farsi i fatti propri ma non sempre sa come si fa a non fare pasticci. Lei, senza saperlo né tantomeno volerlo, ha scosso uno dei pilastri su cui si fonda non solo qualsiasi sinistra ma qualunque sistema liberale: la certezza assoluta che nessuno è sopra la legge. E questo vale anche se chi sbaglia è nostro padre, nostro fratello, lei.

Noi le saremo vicino in ogni modo, soprattutto augurandoci che cadano tutte le accuse. Ma se mai a qualcuno, per commozione o insipienza, venisse in mente di dire che la legalità devono rispettarla quelli per male mentre per quelli per bene, si vede caso per caso, allora sì che quel corteo sotto la sua casa, non sarebbe stato il saluto ad un amico, ma il congedo dalla storia.

Stia bene e che Dio la benedica.

Fabrizio Molina


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