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Immigrazione: riscrivere il contratto sociale anche dentro il sindacato

by Redazione

Di Giuseppe Casucci, Coordinamento Nazionale UIL Immigrati
Un decimo degli iscritti alla UIL, cioè oltre 200 mila affiliati, è oggi costituito da lavoratrici e lavoratori non nati in Italia. Lo stesso fenomeno è in atto nelle altre confederazioni dove la presenza degli stranieri è cresciuta in parallelo con l’andamento demografico generale ed oggi si può stimare che quasi un milione di lavoratori stranieri siano rappresentati dal sindacalismo confederale. Ma ancora di più: vi sono aree produttive che funzionano quasi solo grazie alla presenza degli stranieri”, primo tra tutti il settore dei servizi alla persona con l’80% della manodopera composta da immigrati, seguito dal commercio (26,2%), edilizia (21,7%), agricoltura (15,9%), settore dei trasporti (12%)”. E questo solo per citare una parte dei settori produttivi.
Certo la crisi economica ha prodotto effetti anche sull’andamento degli iscritti stranieri che oggi rischiano il posto di lavoro; rimane comunque un tasso di sindacalizzazione medio superiore a quello dei lavoratori italiani.
Non c’è dubbio che una presenza così massiccia di stranieri nel mercato del lavoro, rischia di stravolgerne la natura e non sempre positivamente. Non sono pochi i casi di dumping lavorativo e sociale, che hanno messo in difficoltà l’azione sindacale ed hanno costretto Cgil,Cisl e Uil a rivedere le proprie strategie politiche e contrattuali. Ci sono situazioni di concorrenza sleale tra imprese, giocate sull’uso (anche in nero) di lavoratori stranieri e casi gravi di sfruttamento come testimoniato da molti brutti episodi in agricoltura, nei servizi alla persona e nell’edilizia.
Basti dire che in media (dati Ministero del Lavoro) nel 2012 le retribuzioni dei lavoratori stranieri sono risultate essere del 25,7% inferiori a quelle degli italiani, a parità di prestazione.
Fino ad oggi, comunque, una certa complementarietà tra lavoro degli immigrati e quello degli italiani ha evitato aperti conflitti e guerre tra poveri. In generale il lavoro degli stranieri è stato ed è di tipo “low cost”, a basso contenuto professionale, lavoro duro a volte precario e sicuramente mal pagato. Prestazioni che gli italiani hanno a lungo rifiutato.
Non è detto però che la situazione non possa cambiare a causa del prolungarsi della crisi. Il rischio è che possano crearsi situazioni di conflitto nell’accesso al lavoro, tra autoctoni e stranieri, anche in aree prima disertate dagli italiani. Ci sono già primi segnali inquietanti in alcuni episodi di cronaca.
Ma la diversità è anche fonte di ricchezza materiale: gli immigrati rappresentano oggi circa un contribuente su dieci e concorrono al 5,6% della ricchezza totale dichiarata, con quasi 45 miliardi di euro (dai 40,4 del 2008). Ed oltretutto producono l’11% del nostro PIL, oltre a pagare parte delle nostre pensioni.
La diversità è anche fonte di ricchezza culturale che, se ben utilizzata da datori di lavoro intelligenti, può portare ad un importante aumento della produttività.
Tutto ciò, comunque, obbliga il sindacato a rivedere le proprie strategie, sia sul fronte dei contenuti contrattuali, ma anche su quello del contrasto alle discriminazioni, dei servizi da offrire ai nuovi cittadini, alle politiche di inclusione sociale, integrazione e diritti di cittadinanza.
Inoltre la crescente platea di iscritti stranieri si traduce nella crescente necessità di includere nuovi quadri di origine non italiana nelle proprie strutture di base e dirigenziali. Non solo per i crescere percentuale della presenza tra gli iscritti, ma anche in quanto “mediatori culturali” naturali verso le idee ed i bisogni di altri nuovi cittadini.
In questo modo è la stessa fisionomia del Sindacato a cambiare, assumendo caratteristiche sempre più multietniche.
E in effetti non si può più confinare ad una nicchia dipartimentale dell’attività sindacale un tema così grande e trasversale come quello del cambiamento multietnico del mercato del lavoro, che cambia la natura stessa di essere sindacato e lo arricchisce di nuove e positive diversità.
Il cambiamento è in atto, ma come spesso accade nelle grandi istituzioni, lo stimolo a cambiare comportamenti e strategie arriva in ritardo e costringe poi a rincorrere mutazioni che nella società vanno avanti comunque. Per questo è necessaria, a mio avviso, una sorta di rivoluzione culturale dentro il mondo sindacale. E questo al fine di rinnovarne la strategia e l’azione, tenendo necessariamente in conto i profondi cambiamenti che già hanno mutato il mondo del lavoro e la società.
Noi diciamo spesso, per sottolinearne l’urgenza di una riforma, che la legge sulla cittadinanza è un contratto sociale tra i contraenti e che se cambiano i firmatari, la natura del contratto va riscritta. La stessa cosa però vale anche per il sindacato che sottoscrive un patto con chi aderisce nelle proprie file e si impegna a tutelarne bisogni ed aspirazioni. Se le persone cambiano, però, se i bisogni e le aspirazioni si diversificano, non si può necessariamente non tenerne conto.
Ignorare questi cambiamenti, infatti, rischia di produrre danni allo stesso sindacato e – alla lunga – di spezzare il filo del contatto con una realtà in continuo cambiamento. Con il risultato di un futuro sempre più incerto e difficile. (Roma, 17 luglio 2014)


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