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No, forse non siamo sulla “stessa barca”…

Immigrazione in tempi di Covid 19: è il titolo di questo articolo che Beppe Casucci, vicepresidente di Nell, ha scritto su Focus Immigrazione – UIL. La pandemia ha stravolto la vita ed il lavoro dei cittadini, autoctoni o stranieri che siano. E produce effetti variegati e differenziati, a seconda delle situazioni personali e dei contesti sociali…Con effetti drastici sull’esistenza delle persone, specialmente dei cittadini stranieri. Vediamo perché.


La pandemia di Covid-19 e le sue ricadute economiche colpiscono sensibilmente migrazioni e processi di integrazione, a cominciare da una forte diminuzione della mobilità internazionale e dai maggiori rischi che comporta lo svolgere lavori manuali, che non possono essere espletati con lo smart working e che costringe i lavoratori ad operare in condizioni potenzialmente pericolose per la loro salute. Nel 2019, quindi prima dell’emergenza sanitaria, i flussi migratori nell’Ocse contavano 5,3 milioni di arrivi, in linea con i due anni precedenti. Erano calati gli arrivi di rifugiati, ma le migrazioni per lavoro non temporaneo erano salite di oltre il 13%; comprese quelle per lavoro temporaneo con oltre 5 milioni di ingressi.

Mobilità: allo scoppio della pandemia, quasi tutti i paesi Ocse hanno imposto restrizioni ai viaggi da e per l’estero.  Col risultato che, nella prima metà del 2020, il rilascio di visti e dei permessi nei Paesi Ocse è crollato del 46% rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel secondo semestre, il calo è arrivato al 72%. Debacle mai registrata in precedenza. Il 2020 è stato dunque un anno record per il basso livello di migrazioni nell’area Ocse. Secondo i ricercatori, non si tornerà facilmente indietro: la bassa domanda di lavoro, le restrizioni, l’uso del lavoro a distanza tra lavoratori qualificati e dell’apprendimento a distanza tra studenti manterranno bassa la mobilità.

Rischi sanitari: secondo l’Ocse, la popolazione straniera è più a rischio di contrarre il coronavirus o di soffrire di povertà a causa della pandemia. I migranti hanno il doppio delle probabilità di contrarre il virus perché molti di loro lavorano in settori considerati essenziali, e che quindi non possono essere interrotti: come la sanità, il commercio, la vendita al dettaglio, i trasporti e le consegne, nonché i lavori domestici. In particolare nel settore sanitario gli stranieri costituiscono il 24 per cento dei medici e il 16 per cento degli infermieri nei 36 paesi dell’Ocse; inoltre vivono spesso in case e in quartieri più affollati, osserva lo studio. E tra loro si è registrata, “un’incidenza di decessi sproporzionata anche nei paesi con accesso universale alle cure per il covid-19”.

Aumentano precarietà e sfruttamento: durante l’emergenza è stato registrato un aumento del 15-20 per cento di stranieri sfruttati nelle campagne, che corrisponde a 40-45mila persone, un peggioramento delle condizioni lavorative, un incremento sia dell’orario di lavoro (tra 8 e 15 ore giornaliere) sia del numero di ore lavorate e non registrate (20 per cento) e un peggioramento della retribuzione. E questo potrebbe tranquillamente valere per settori come il commercio e la distribuzione dove la precarietà contrattuale e le condizioni (anche sanitarie) di lavoro lasciano alquanto a desiderare. Tutti effetti “dell’intreccio perverso tra la pandemia e il sistema dello sfruttamento dei migranti”, afferma Marco Omizzolo nel rapporto Idos. A questo si è aggiunto “l’aumento esponenziale dell’arrendevolezza” dovuto al clima emergenziale che ha spinto molti migranti sfruttati “a considerare sé stessi come secondari rispetto ai destini degli italiani” e quindi a rinunciare spesso alle loro rivendicazioni per degli standard di sicurezza.

Conseguenze simili sui flussi migratori si sono rilevate anche per il nostro Paese. Il 26 ottobre Istat ha pubblicato il Report Cittadini non comunitari in Italia 2020, contenente dati relativi agli anni 2019 e 2020. Nel 2019 sono stati rilasciati oltre 177 mila permessi (-26,8% rispetto al 2018), in calo soprattutto quelli relativi a richieste di asilo, che passano da 51,5 mila a 27 mila. Nel primo semestre del 2020 sono stati concessi a cittadini non comunitari circa 43 mila nuovi permessi di soggiorno, meno della metà del primo semestre del 2019. Tale calo è da attribuire in larga parte al blocco delle frontiere imposto dalla pandemia che, a partire dal mese di marzo, ha quasi azzerato il rilascio di nuovi permessi. In aumento invece le acquisizioni di cittadinanza (+10,1% rispetto al 2018).   I dati provvisori riferiti ai primi sei mesi del 2020 mostrano una contrazione del 63,6% dei permessi per ricongiungimento familiare, mentre quelli per richiesta d’asilo sono diminuiti del 55,5%. Anche se meno consistente in termini assoluti, va poi sottolineato il calo degli ingressi per lavoro stagionale, su cui ha pesato molto la chiusura delle frontiere; la diminuzione in questo caso è stata del 65,1%: da 2.158 nuovi permessi per tale motivazione nei primi sei mesi del 2019 a 753 nel primo semestre di quest’anno. I mesi che hanno fatto registrare la contrazione maggiore sono aprile e maggio (rispettivamente del 93,4 e dell’86,7%), tuttavia già a gennaio e febbraio si era registrata una sensibile diminuzione dei nuovi ingressi che per entrambi i mesi sfiora il 20%, in linea con la tendenza alla diminuzione avviatasi dal 2018. Per alcune collettività la diminuzione è stata superiore alla media: in particolare per quelle provenienti nell’ordine da India, Marocco e Ucraina Albania e Bangladesh. 

Italia senza immigrazione?

Il crollo demografico: a tutto questo vanno aggiunti gli annosi problemi demografici che affliggono il nostro Paese, notevolmente aggravati con l’arrivo della pandemia. Secondo l’Istat il 2020 toccherà nuovi record, sia in termini di minore natalità che di maggiore mortalità. L’effetto Covid sulla natalità è derivato da una maggiore paura nel futuro da parte della popolazione, creata dalla pandemia. Per l’Istat gli effetti, ancora più seri, si manifesteranno nel 2021. Spiega Carlo Blangiardo, presidente Istat: “I 420mila nati registrati in Italia nel 2019, che già rappresentano un minimo mai raggiunto in oltre 150 anni di unità azionale, sono scesi a circa 408 mila nel bilancio finale dello scorso anno, a causa di un calo dei concepimenti, per poi ridursi prevedibilmente a 393 mila nel 2021”. I demografi parlano oggi, infatti, di “trappola demografica”. Una vera e propria trappola nella quale l’Italia si trova ormai da decenni, sulla quale si è depositata l’emergenza Covid. Spiega Daniele Vignoli, ordinario di Demografia all’università di Firenze. “Nel nostro paese la natalità è in calo fin dagli anni Settanta. Nascendo meno bambini e in particolare meno bambine, è diminuito il numero delle madri. Di conseguenza il numero dei nati. Ridotto ancor di più dalla tendenza delle donne a diventare madri oltre i 35 anni”. Basta osservare i numeri: nel 2008 nascevano in Italia 576.659 bambini, nel 2019 i nuovi nati sono stati, soltanto, 420.170.

Covid, effetti a 360 gradi

La pandemia di Covid-19, se dal punto di vista sanitario sembra essere un rischio potenziale per tutti (ma poi l’accesso alle cure appare non sempre equo), sul fronte economico e sociale sta già producendo effetti variegati e differenziati a seconda delle situazioni personali e dei contesti sociali su cui si va ad immettere.  Il Covid ha già prodotto pesanti danni alle economie di tutto il mondo, Europa compresa e sta producendo pesanti perdite di posti di lavoro ed un peggioramento delle condizioni di vita nella popolazione. Questo non può non avere conseguenze sull’opinione pubblica riguardo alle politiche migratorie. Non dimentichiamo che i migranti sono opportunisticamente considerati una risorsa, spesso solo quando funzionali alle economie, compresa quella sommersa.  C’è chi non ha mancato di fare campagne denigratorie nei confronti dei migranti, indicandoli come potenziali “untori”. E questo malgrado i dati dimostrino che la percentuale di positivi al contagio tra gli stranieri non è poi diversa da quella degli italiani.  Questo per dire che non siamo nella stessa società del 2019 e che lo Tsunami che continua ad investire le nostre vite sta già producendo importanti cambiamenti, in termini economici, sociali e di costume. Gli effetti olistici della pandemia non sono stati previsti da nessuno. Come in passato, però epidemie di questa portata possono destabilizzare economie e società, cambiando modelli di sviluppo, comportamenti individuali, costumi ed organizzazione della società stessa. Tra l’altro, basterebbe guardare alla storia ed alle epidemie della “Spagnola” ed “Asiatica” per notare preoccupanti similitudini: nel 1918 – 1919 le ondate successive della pandemia andarono via via peggiorando ed – in assenza di farmaci adeguati a contrastare le polmoniti – ci furono 50 milioni di morti solo in Europa. L’epidemia cessò solo quando l’estensione del contagio produsse l’immunità di gregge.  Gli effetti sulle economie furono catastrofici. Attualmente le valutazioni dell’impatto del Covid, ancora provvisorie, sono della probabile perdita – solo per l’Italia – di almeno un milione e mezzo di posti di lavoro.

Cambiano i modelli di lavoro: la pandemia ci costringe a cambiare il modo di lavorare e di rapportarci agli altri (smart working) e soprattutto non colpisce tutti allo stesso modo.  Secondo l’OCSE, la crisi prodotta dal Covid 19 potrebbe avere un “impatto sproporzionato sui migranti e le loro famiglie”. Un recente studio portato avanti da questo organismo a livello mondiale considera la probabilità che la pandemia possa avere “pesanti effetti in termini di salute, lavoro, educazione, formazione linguistica ed altre misure di integrazione”, nonché naturalmente sull’opinione pubblica. 

Migranti e pandemia

I lavoratori migranti sono stati in prima linea durante la crisi. Come già detto, essi rappresentano una quota importante nelle professioni sanitarie nell’Ocse. In molti Paesi, inoltre, più di un terzo della forza lavoro in altri settori chiave – in agricoltura, trasporti, pulizie, industria alimentare e lavoro domestico – è rappresentato da migranti.   Anche in Italia l’emergenza sanitaria sta già producendo pesanti effetti, su autoctoni e non. Secondo il Dossier Statistico Immigrazione di Idos, per la prima volta dopo decenni il numero di stranieri residenti nel 2019 è diminuito in termini assoluti (-100 mila unità circa, rispetto al 2018) dopo tre decenni di crescita ininterrotta che aveva visto aumentare dal 2012 al 2018 il numero di stranieri residenti di circa un milione di unità. E questo alla vigilia della pandemia. Ed il 2020 ha visto un’ulteriore diminuzione di stranieri, e questo malgrado gli arrivi dal mare o dalla rotta balcanica. Ancora: i migranti affrontano tempi duri nel mercato del lavoro. Molti dei progressi degli scorsi anni sui tassi di occupazione dei migranti sono stati cancellati dalla pandemia. In tutti i Paesi che hanno reso disponibili i dati, la disoccupazione è cresciuta tra i migranti più che tra i nativi. Gli incrementi maggiori si sono registrati in Canada, Norvegia Spagna, Svezia e Stati Uniti. Secondo l’Ocse, in Svezia, quasi il 60% dell’incremento iniziale della disoccupazione ha colpito i migranti. Negli Stati Uniti, la disoccupazione tra i migranti era inferiore di un punto percentuale rispetto a quella tra i nativi prima della pandemia, ora la supera di due punti.   In Italia, vista la precarietà dei rapporti di lavoro, l’impatto del Covid sui cittadini stranieri è stato particolarmente pesante, per una serie di ragioni, che proviamo ad elencare: 
a. Perché gli stranieri lavorano nei settori in cui non è possibile svolgere la propria funzione da remoto (smart working);
b. Perché le funzioni svolte dai migranti sono di per sé maggiormente pesanti ed esposte a rischi per la salute;
c. Perché i loro contratti di lavoro, spesso precari e di breve durata, rendono maggiormente difficile per loro l’accesso agli ammortizzatori sociali nei momenti di crisi;
d. Perché la maggiore precarietà prodotta dalla pandemia li rende più deboli nella legittima richiesta di condizioni contrattuali e lavorative dignitose;
e. Perché la forte presenza di stranieri nell’economia sommersa produce assieme ad una assenza di diritti, anche un maggior rischio di contagio e di minaccia alla salute;
f. Ci sono poi le condizioni abitative, che non sempre permettono a migranti e rifugiati le protezioni ed il distanziamento sociale necessario a garantire sicurezza sanitaria. 
g. L’accesso dei minori stranieri all’istruzione è reso più difficile dalla scarsa disponibilità delle attrezzature informatiche necessarie per le lezioni a distanza;
h. La difficoltà nell’accedere alle amministrazioni pubbliche ha aumentato i problemi relativi alla documentazione di soggiorno e particolarmente sul fronte dei ricongiungimenti familiari, resi ardui dai problemi di accesso ai consolati italiani nei paesi d’origine ed il quasi blocco della mobilità internazionale. E questo malgrado il governo abbia più volte esteso la durata dei permessi (su richiesta sindacale), per evitare resse agli uffici delle questure o nelle amministrazioni pubbliche.

I migranti, dunque, sono altamente esposti all’impatto della pandemia sulla salute, perché lavorano in prima linea, ma anche per altre vulnerabilità connesse, come le condizioni di alloggio e la maggiore povertà. Studi in diversi paesi Ocse hanno scoperto un rischio di infezione almeno doppio rispetto a quello dei nativi.  

Le proposte del sindacato

Per Cgil, Cisl, Uil si pongono dunque ulteriori sfide legate alle diverse condizioni lavorative, abitative e di accesso ai servizi che gli stranieri hanno in Italia, rispetto ai loro colleghi autoctoni; ed alla conseguente necessità di dare risposte adeguate ad evitare maggiori rischi di contagio ed esposizione ad ulteriori condizioni di sfruttamento.  Questo naturalmente non significa sottovalutare i problemi che la pandemia pone ai cittadini italiani, a cui il sindacato dedica sempre la propria azione di tutela; vuol dire soltanto che la particolare condizione dei cittadini stranieri necessita di particolare approfondimento e risposte. I decreti sicurezza, corretti dal D.L. 130/2020 – con l’abolizione della protezione umanitaria – avevano prodotto l’espulsione dai centri di accoglienza di decine di migliaia di persone, finite in mezzo alla strada o costrette a vivere in tuguri improvvisti ed edifici occupati, in condizioni di sovraffollamento ed estrema insicurezza sanitaria. Con lo scoppiare della pandemia questi rischi alla salute sono aumentati per loro stessi e per gli altri. Fin dall’inizio della emergenza pandemica Cgil, Cisl, Uil hanno elaborato una serie di proposte volte a rispondere ai particolari bisogni che l’emergenza stessa poneva ai cittadini stranieri: sul piano della difesa del posto di lavoro (blocco dei licenziamenti) e dell’accesso agli ammortizzatori sociali (massima estensione a tutti i lavoratori); sugli adempimenti necessari a confermare il loro status legale (estensione della durata dei permessi), ed in generale sul rispetto dei diritti contrattuali. In primo luogo, naturalmente, la lotta al lavoro nero e precario che, oltre a privare i lavoratori dei propri diritti, rende oggettivamente più a rischio la loro salute. Si è cercato di intervenire anche sul piano delle difficoltà connesse alla mobilità internazionale chiedendo al Ministero degli Esteri di intervenire – tramite le ambasciate – per facilitare il ritorno in Italia di stranieri bloccati all’estero o sveltire le pratiche connesse al ricongiungimento familiare. L’obiettivo è tutelare i diritti contrattuali e le condizioni di lavoro e di vita di tutti i lavoratori, immigrati compresi, dando risposta ai problemi che la pandemia, e non solo, rischia di relegarli in una condizione di marginalità sociale; ancora più difficile di quella già molto critica che vivono oggi i cittadini e lavoratori italiani.


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