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Non basta solo l’intelligence. Serve la politica

by Redazione

Con questo titolo l’articolo di Giovanna Zincone – sul rapporto tra religioni, ‘fratture culturali e fratture economiche’ nella società contemporanea – è apparso sul quotidiano “La Stampa” del 22 gennaio

«Dovremmo chiedere a Dio di liberarci di Dio»: così ha iniziato la sua omelia domenica scorsa un sacerdote sano di mente. Si riferiva al fatto che gli umani hanno sempre utilizzato motivazioni religiose per compiere nefandezze, in nome di Dio.

A chi imputa all’Islam la esclusiva responsabilità di generare violenza sono stati già ricordati i massacri compiuti da induisti non solo contro musulmani, ma anche contro Sikh, ad esempio, dopo l’assassinio di Indira Gandhi, e la stessa uccisione del Mahatma per mano di un correligionario. Persino i seguaci del Buddismo, religione pacifica per eccellenza, hanno formato gruppi violenti, compiuto atti di terrorismo contro cristiani e musulmani in vari Paesi dell’Asia. Il leader di una loro fazione, Ashin Wiratu si è meritato la copertina di Time proclamandosi il “Bin Laden dell’Asia”.

La mitezza che permea il messaggio evangelico non ha impedito devastanti conflitti non solo contro pagani e infedeli, ma anche – come è noto – tra gli stessi cristiani, dalle origini fino a tempi recenti, vedi Irlanda del Nord. Atti di terrorismo da parte di musulmani sono molto spesso rivolti contro altre comunità dello stesso universo religioso. Proprio questo duro scontro interno all’Islam potrebbe orientare la strategia antiterroristica europea verso più ampie alleanze, anche solo tattiche, sulla base del solito principio: il nemico del mio peggior nemico è un possibile amico.

Ma un allargamento della rete di azioni militari e di intelligence di questo tipo incontra resistenze, che si spiegano anche rispolverando il concetto di «atavismo» elaborato da Schumpeter a proposito dell’imperialismo fin de siècle, sfociato nella Prima guerra mondiale: pulsioni primarie mai sopite, ostilità storicamente radicate che oscurano la ragionevolezza politica ed economica. Fattori di questo tipo non agiscono solo sulla scala internazionale, plasmando negativamente le agende strategiche di molti paesi, anche nelle motivazioni dei terroristi europei possiamo ipotizzare la presenza di una sorta di atavismo. Infatti, la spiegazione classica individuata a suo tempo dai sociologi è utile ma insufficiente. La responsabilità delle rivolte secondo quella tesi classica andrebbe ricercata nella sovrapposizione tra fratture culturali e fratture economiche: le periferie degradate ospitano ragazzi di origine immigrata che sono insieme economicamente svantaggiati e, almeno per tradizione familiare, musulmani. In Francia, in coerenza con il principio di laicità, i censimenti non rilevano appartenenze religiose, questo non impedisce di fare credibili valutazioni, secondo le quali le comunità musulmane sono molto più giovani, più presenti tra i disoccupati e nei lavori mal pagati.

Quindi la tesi classica avrebbe qualche base empirica, ma per capire perché giovani si re-islamizzano o si convertono credo sia utile rispolverare ancora il richiamo dell’atavismo. Quell’atavismo di marca musulmana, rinforzato e diffuso anche in Europa da un robusto sistema di indottrinamento foraggiato dagli Stati del Golfo. È un kit ideologico che offre l’opportunità di riabilitare modi di credere che non ammettono dubbi, di ristabilire gerarchie e rapporti turbati da una modernizzazione di marca occidentale, in primis quello tra uomini e donne, di poter così contare su un’idea forte di ordine esterno e interiore. Sarebbe interessante capire quanto l’atavismo del maschio dominante conti pure nel reclutamento femminile. La spiegazione del disagio economico come motore unico del terrorismo non basta, anche perché non spiega altri terrorismi a noi noti. Brigatisti rossi e bombaroli neri non venivano solo da famiglie povere o da quartieri sgangherati: li accomunava invece la ricerca di una «nobile causa» sulla quale riversare la loro voglia di vivere pericolosamente, di fare del male in nome del Bene. Tuttavia, forzare troppo la tesi dell’atavismo è politicamente rischioso, un po’ come lo è la nuova dottrina oncologica che attribuisce l’origine dei tumori soprattutto a cause genetiche. Nei corpi umani come in quelli sociali, la prevenzione è utile, l’ambiente conta e, soprattutto, è solo lì che possiamo intervenire. Occorre quindi contrastare sia l’esclusione di un gruppo dal benessere, sia – come suggeriscono da tempo filosofi comunitari come Taylor – l’esclusione di quel gruppo dal riconoscimento e dal rispetto collettivo. Godono di questo riconoscimento le comunità musulmane? In Europa ampie percentuali di autoctoni rifiutano l’idea che i musulmani siano parte della loro stessa comunità, continuano a percepirli come un corpo estraneo, e il terrorismo di matrice musulmana non ha giovato a migliorare questa percezione.

Secondo una recente indagine della Fondazione Bertelsmann, in Germania, il 61% degli autoctoni giudica impossibile un adattamento dell’Islam all’Occidente e il 40% accusa gli immigrati musulmani di non farli più sentire «padroni a casa loro». Per contro, la stessa ricerca ha rivelato che il 90 per cento dei musulmani praticanti giudica la democrazia un ottimo sistema di governo e condivide i valori del pluralismo. Gli intervistati, però, si dicono spaventati dalle ostilità crescenti di cui sono oggetto. C’è il rischio che quella paura agisca da detonatore di una reazione a catena. Se gli atti di terrorismo riusciranno ad ampliare la frattura tra autoctoni e immigrati, tra musulmani e non, se incrineranno amicizie e relazioni, se mineranno i ponti del dialogo culturale e religioso, allora i terroristi avranno raggiunto il loro scopo: uno scontro a tutto campo. Per combattere il terrorismo l’intelligence è necessaria, ma non basta, serve anche una certa dose di intelligenza politica. Chi oggi presidia posizioni caute, come ha fatto il Papa con l’esempio del pugno come reazione spontanea a chi offende valori profondi, richiama quello che è dovrebbe essere il carattere principe dell’agire politico: preoccuparsi delle conseguenze delle proprie affermazioni e delle proprie azioni. Il Papa con i suoi richiami ad abbassare i toni, a mostrare rispetto verso altre religioni, vuole evitare che un’escalation negli scontri verbali generi un’escalation delle tragedie fisiche, altri massacri di innocenti. Almeno lui non pare affetto da atavismo. Grazie a Dio.


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